Questo articolo fa parte dello speciale Ritorno a scuola
Nell’ottobre del 2020 è stato pubblicato l’ultimo dei sei volumi in cui sono stati condensati i risultati della più recente tornata di rilevazioni Pisa, tenutasi nel 2018. È dedicato alla più recente tra le aree tematiche su cui l’Ocse ha concentrato la sua attenzione: quella delle «competenze globali». La rilevazione del 2018, infatti, è stata la prima in cui ai Paesi partecipanti è stato proposto anche questo focus di ricerca, in aggiunta alle più «canoniche» competenze di lettura, matematiche, scientifiche e finanziarie.
Il concetto di «competenza globale» elaborato dall’Ocse si propone di comprendere in sé tutte le abilità necessarie agli studenti per vivere e prosperare (il termine originale inglese è thrive) in un mondo interconnesso. Come tale esso è estremamente composito, ma può essere raggruppato attorno a quattro dimensioni fondamentali: saper analizzare questioni di scala locale e globale (anche attraverso la media literacy, ovvero l’utilizzo consapevole dei nuovi media), saper cogliere motivazioni e dignità del punto di vista di persone diverse da sé, saper gestire le complessità della comunicazione interculturale e, infine, essere in grado di impegnarsi in prima persona per equità, benessere collettivo e sviluppo sostenibile, secondo le linee dell’agenda 2030.
Il tentativo dell’Ocse di valutare le «competenze globali» dei giovani è, evidentemente, modellato non solo sulla nozione già di per sé problematica di «competenza», ma anche sulle convinzioni e i valori che quella istituzione propone e incarna: in primo luogo, inevitabilità e positività dell’apertura globale dei mercati. Come vedremo, però, non bisogna essere necessariamente dei pasdaran del capitalismo liberista per riconoscere in questa iniziativa qualcosa di effettivamente legato alle urgenze del nostro tempo, e nei risultati della ricerca qualcosa di utile per avvicinarci a comprendere mentalità e valori delle nuove generazioni.
L’Ocse non è infatti l’unica istituzione a essersi posta, in questi ultimi anni, il problema di favorire una positiva integrazione degli adolescenti nelle società complesse della contemporaneità. Due anni prima dell’ultima tornata Pisa, ad esempio, una istituzione antica e rappresentativa di quarantasette Paesi come il Consiglio d’Europa si era mossa in modo non molto difforme. Anche sull’onda emotiva degli attacchi terroristici verificatisi in quegli anni in vari Paesi europei, non di rado a opera di giovani passati per i sistemi scolastici delle nostre periferie, esso aveva approvato all’unanimità il progetto, originato dalla piccola Andorra, di un Framework of Competences for Democratic Culture che potesse aiutare i sistemi scolastici a definire dei curricula in grado di promuovere una cultura democratica, poi elaborato e pubblicato, in tre volumi, nel 2018.
E d’altronde, si parva licet, la recente riproposizione dell’educazione civica come materia autonoma in Italia, uno dei pochissimi provvedimenti approvati dal Parlamento quasi all’unanimità nel periodo, politicamente molto conflittuale, della maggioranza giallo-verde, può essere letta senza difficoltà come un tentativo nella stessa direzione.
Oggi, fornire agli adolescenti anche specifiche competenze di cittadinanza, è considerato da istituzioni di ogni genere, una delle funzioni più importanti cui sono chiamati i sistemi scolastici di tutto il mondo
Al netto di velleitarismi, criticità e parzialità di punto di vista e di approccio di ciascuna di queste iniziative, ce n’è dunque abbastanza per riconoscere una tendenza di fondo: oggi, man mano che il grado di complessità delle società contemporanee va crescendo, fornire agli adolescenti, oltre alle tradizionali capacità di leggere, scrivere e far di conto, anche ben specifiche competenze di cittadinanza, è considerato da istituzioni di ogni genere, e da forze politiche riconducibili a ideologie diverse, come una delle funzioni più importanti cui sono chiamati i sistemi scolastici di tutto il mondo.
Com’è noto, i test Pisa sono effettuati in parallelo su studenti di pari età (15 anni) di un gran numero di Paesi, anche non membri Ocse, con cadenza triennale. A differenza di altre rilevazioni, come i test Invalsi, iniziativa nazionale italiana, essi non sono somministrati alla totalità della popolazione scolastica delle nazioni partecipanti, ma a campioni statisticamente rappresentativi. Per quanto riguarda l’Italia, ad esempio, nel 2018 sono stati testati 11.785 ragazzi, in luogo dei 616.185 quindicenni residenti in quell’anno nel nostro Paese.
Anche per studiare le «competenze globali» Ocse-Pisa ha elaborato il più classico degli strumenti di rilevazione: un test cognitivo, i cui quesiti erano mescolati, senza soluzione di continuità, con quelli orientati all’osservazione di competenze diverse. Per la tornata 2018 esso è stato somministrato però solo in una minoranza dei Paesi aderenti allo studio: 27 su 66, dei quali non faceva parte l’Italia.
Ciononostante, il volume pubblicato dall’Ocse contiene comunque dati molto interessanti sui quindicenni italiani. Essi, infatti, come i loro coetanei di tutti i Paesi partecipanti, hanno risposto a un questionario di contesto in cui, tra le altre domande, erano inseriti anche numerosi quesiti sui loro atteggiamenti, interessi e abitudini, proprio su argomenti vicini a quelle stesse competenze globali. Ne sono venuti fuori dati che, più che a uno studio Pisa o Invalsi, somigliano a qualcosa che sta a metà tra un test psico-attitudinale e un sondaggio d’opinione.
I risultati completi dell’indagine sono liberamente accessibili online presso il sito dell’Ocse, e chi vorrà affrontarne la lettura avrà la possibilità di sbirciare dentro uno dei pochissimi periscopi di cui disponiamo per avvicinarci al punto di vista dei nostri giovani. Alla prima lettura, tuttavia, emerge con chiarezza un dato macroscopico, inaspettato, e per nulla confortante per il nostro Paese: nella maggioranza dei casi i giovani italiani, pur avendo una discreta consapevolezza delle questioni globali, sono molto meno curiosi e aperti al mondo globalizzato rispetto ai loro coetanei stranieri.
I giovani italiani, pur avendo una discreta consapevolezza delle questioni globali, sono molto meno curiosi e aperti al mondo globalizzato rispetto ai loro coetanei stranieri
Lo suggeriscono numerosi indicatori, elaborati sulla base delle risposte date dai ragazzi stessi a proposito dei loro desideri, atteggiamenti e opinioni. Ci limiteremo a citare i dati più macroscopici. Tra i più interessanti c’è, ad esempio, quello relativo all’interesse verso altre culture (figura 1). Nella classifica di questo indice, che vede svettare i giovani turchi e albanesi, gli italiani sono al penultimo posto (-25% media Ocse), appena dopo i loro coetanei tedeschi e ungheresi, e prima degli slovacchi. I giovani italiani si classificano addirittura all’ultimo posto, dopo slovacchi e francesi, nell’indice relativo alla capacità di comprendere i punti di vista altrui (figura 2), con un valore inferiore del 34% alla media Ocse. Sono a fondo classifica anche riguardo un altro indicatore, quello del rispetto per le altre culture (figura 3). In questo caso i nostri giovani sono quintultimi (-41% media Ocse), posizionandosi sopra solo a slovacchi, bulgari, ungheresi e thailandesi. Occupano, poi, la quartultima posizione considerando l’indice dell’adattabilità cognitiva (figura 4), con un dato inferiore del 33% alla media Ocse. I ragazzi italiani, infine, si collocano nella parte bassa della classifica anche per l’indicatore, sintomatico per le sue connotazioni politiche, riguardante gli atteggiamenti nei confronti degli immigrati (figura 5). Il dato è inferiore del 22% alla media Ocse, il che colloca l’Italia al 45° posto tra i Paesi partecipanti allo studio.
Se non desta particolare sorpresa il fatto che gli studenti con indice Escs (lo status sociale, economico e culturale delle famiglie degli studenti) più alto abbiano mostrato un grado di apertura alla globalità maggiore rispetto alla media, sia nel nostro Paese sia in generale (si tratta dell’indicatore calcolato dall’Ocse per indicare lo status socio-economico e culturale), è forse meno scontato notare che lo stesso si può dire per le ragazze, mediamente più aperte e curiose rispetto ai loro coetanei maschi. L’unico tra gli indicatori considerati in questo articolo per cui, in Italia come nella maggior parte dei Paesi coinvolti nello studio, il dato si ribalta a favore dei ragazzi è quello dell’adattabilità cognitiva. La differenza tra i dati della totalità degli studenti e quelli dei giovani con background migratorio, invece, nel nostro Paese è statisticamente significativa solo in tre casi, e, come era lecito aspettarsi, a favore di questi ultimi: l’interesse nei confronti di altre culture, il rispetto per le stesse e l’atteggiamento nei confronti degli immigrati.
È evidente: lo strumento d’indagine elaborato dall’Ocse è nuovo e da perfezionare, e lo studio dipende «totalmente» dalla sincerità dei ragazzi testati, italiani come di tutti quelli degli altri Paesi coinvolti. Inoltre, come già ricordato, a rispondere alle domande non è stata la totalità dei quindicenni dei singoli Paesi, ma campioni statisticamente significativi.
Al netto di tutto questo, resta il fatto che i dati emersi dalla ricerca, per il nostro Paese, sembrano ben poco confortanti. Gli adolescenti italiani ne vengono fuori come soggetti poco capaci di mettersi nei panni dell’altro e comprendere l’intrinseca complessità della realtà, e scarsamente resilienti di fronte a scenari inaspettati. Prima ancora di essere poco tolleranti verso il diverso, sembrano poco curiosi e poco consapevoli della diversità. Posti nell’occhio del ciclone di un mondo globalizzato, sembrano in realtà nostalgici di «Strapaese».Sarebbe profondamente ingiusto addebitare questi risultati ai ragazzi stessi: essi paiono invece indicativi di tic e tare dell’intero sistema-Paese. La formula migliore per riassumere quanto emerso è "Strapaese, Italia"
Sulle cause di quanto evidenziato da questa ricerca nulla si può dire senza cadere nell’opinabile, e farlo va oltre gli scopi di questo articolo. È però il caso di rimarcare un punto, con fermezza. Sarebbe profondamente ingiusto addebitare questi risultati ai ragazzi stessi: essi paiono invece indicativi di tic e tare dell’intero sistema-Paese. La formula migliore per riassumere quanto emerso non è quindi «generazione Strapaese»: casomai, «Strapaese, Italia».
Diceva Ennio Flaiano che se i popoli si conoscessero meglio si odierebbero di più, e, in tal caso, potremmo evidentemente dormire tra due guanciali. Paradossi a parte, però, il sovranismo culturale che lo studio Ocse, pur con tutti i suoi limiti, individua come uno dei tratti distintivi della personalità dei nostri giovani, è probabilmente un dato della realtà effettivamente esistente, la cui rimozione da parte nostra sarà loro di poco aiuto nella costruzione di una società più giusta per tutti.
Sul che fare, il dibattito è aperto. Per aiutare i nostri giovani a guardare il mondo con occhi diversi dai propri, permanendo all’interno dello stesso nostro orizzonte culturale, il sistema scolastico e universitario potrà sicuramente fare con efficacia la propria parte, magari ricorrendo a strumenti didattici innovativi come il debate: riedizione tirata a lucido delle antiche dispute, intrinsecamente pensata per far confrontare dialetticamente gli studenti con la pluralità delle opinioni e dei punti di vista e, nella sua fase di ricerca documentale, efficace anche come esercizio di media literacy.
Più complessa appare la questione della poca adattabilità ai cambiamenti e della scarsa curiosità dei nostri giovani verso individui, Paesi e culture lontani da sé. Se le riconosciamo come problemi, e desideriamo risolverli, l’impegno del solo sistema scolastico, pur necessario, sarà sistematicamente insufficiente: ci sarà bisogno di una consapevolezza ben più larga, e di un impegno ben più condiviso e risoluto.
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