Puntuale come il caldo afoso, anche l’estate che si sta chiudendo ha riportato in auge il dibattuto tema delle cosiddette «classi pollaio», visto da tanti come la principale disfunzionalità da abbattere per far finalmente funzionare al meglio la scuola italiana. Ma cosa intendiamo quando parliamo di classi pollaio?

Il concetto, in realtà, è piuttosto generico perché, a pensarci bene, può riferirsi a due parametri diversi: il numero di alunni per classe e lo spazio a disposizione dei singoli alunni. Pensiamo, ad esempio, a una classe di 100 metri quadrati (poniamo si tratti di un ex laboratorio) che accoglie 30 studenti. Certamente gli spazi sono ampi ed è possibile riconfigurare l’ambiente di apprendimento per permettere metodologie didattiche innovative. Siamo sicuri, però, che dover gestire una classe così numerosa non pregiudichi la qualità della didattica?

Come secondo esempio pensiamo, invece, a un’aula molto più piccola, di soli 44 metri quadrati, che accolga 22 alunni. In questo caso, il docente dovrà gestire un numero di alunni inferiore all’esempio precedente, ma le dimensioni dell’aula non permetteranno di implementare alcune metodologie didattiche (ad esempio le isole per l’insegnamento tra pari) e questa sarà quindi, nuovamente, pregiudicata.

Si tratta di classi pollaio? Ecco, a leggere la normativa, la risposta sarebbe, paradossalmente, negativa. Ma se anche si rispettano tutti i criteri previsti dalla normativa, qualsiasi docente potrà sicuramente dimostrare che l’ambiente di apprendimento a sua disposizione gli impedisce di svolgere al meglio la sua azione educativa. Quanto incide questo vincolo?

Ridurre il numero di alunni per classe ha un impatto positivo sull’apprendimento, anche se i benefici dipendono da come gli insegnanti riescono a sfruttare i nuovi ambienti

La letteratura ci dice che ridurre il numero di alunni per classe ha un impatto positivo sull’apprendimento, perché in classi meno numerose docenti e alunni lavorano meglio. Quanto meglio, però? Qui le cose si complicano, perché i benefici dipendono moltissimo da come gli insegnanti riescono a sfruttare i nuovi ambienti di apprendimento per migliorare la qualità della didattica. Il costo, però, è facilmente quantificabile ed è molto significativo. Si tratta, infatti, di costruire nuove scuole, dotarle di tutta la strumentazione necessaria e formare e assumere nuovi insegnanti. Per questo motivo è riduttivo limitarsi al dibattito «classi pollaio sì/no» ma è necessario verificare, nel concreto, come sia possibile arrivare a una soluzione sostenibile.

Come si eliminano le classi pollaio? Legislativamente parlando è molto semplice. È sufficiente, infatti, ritoccare il D.P.R. 81/2009 relativo al dimensionamento scolastico, andando a modificarne i numeri. Ad esempio, l’articolo 16 stabilisce che le classi prime, nella scuola secondaria di II grado sono costituite «con non meno di 27 allievi.» A ogni scuola le classi vengono autorizzate «dividendo per 27 il numero complessivo di alunni iscritti nell'istituto» mentre «gli eventuali resti della costituzione di classi con 27 alunni sono distribuiti tra le classi dello stesso istituto».

La norma permette qualche spazio di manovra agli Uffici scolastici provinciali, che si occupano dell’autorizzazione delle classi e degli organici, ma la distribuzione eterogenea degli iscritti tra i vari indirizzi di una scuola fa sì che, pur mantenendo una media vicina e magari inferiore a 27, si determinino anche classi di 31-33 alunni. Ma allora non è sufficiente sostituire il «27» con un «20», imporre un tetto massimo di 23 alunni per classe e risolvere il problema in maniera definitiva? Purtroppo non è così semplice.

Già oggi alcune scuole e indirizzi molto gettonati devono necessariamente compiere delle selezioni per decidere «chi entra» e chi «resta fuori». Sono procedure antipatiche, mal sopportate dalle famiglie e che contrastano con il diritto all’istruzione. Purtroppo sono però inevitabili.

Le classi da 30 o più alunni, infatti, si fanno perché, a fronte di tanti iscritti, vi è solo una classe autorizzata per quello specifico indirizzo (ad esempio il liceo sportivo) oppure perché gli spazi sono esauriti e non è possibile reperirne di aggiuntivi.

Ridurre di un 25% i posti disponibili amplificherebbe a dismisura un problema che già oggi costringe a iscrivere i figli in scuole molto lontane o a optare per indirizzi diversi

Ridurre, dall’oggi al domani, di un 25% i posti disponibili, significherebbe amplificare a dismisura un problema che già oggi esiste, costringendo le famiglie a iscrivere i loro figli in scuole molto lontane da casa oppure a optare per indirizzi molto diversi da quelli scelti inizialmente. Senza contare, poi, che nelle scuole secondarie di II grado, siamo ancora lungo una curva demografica crescente, per cui i posti potrebbero non esserci in nessuna scuola oppure esistere ma al tecnico o al professionale quando l'iscrizione era stata fatta al liceo.

È vero, la soluzione potrebbe essere quella di costruire nuove scuole o ricavare altri spazi in quelle esistenti. Ma una scuola ben progettata non si edifica in pochi mesi e il rischio è che, iniziando a costruire ora le nuove scuole, le avremo a disposizione tra cinque o sei anni, quando magari le iscrizioni saranno in forte calo e non saranno più necessarie.

Vi è poi il problema degli organici dei docenti.

Abbiamo ascoltato, in questi mesi, gli allarmi lanciati dai sindacati in merito alle duecentomila cattedre che rischiano di rimanere scoperte a settembre. Possiamo ritenerli esagerati ma non sono privi di fondamento. Nell’anno scolastico 2019-2020, l’ultimo di cui possediamo i dati, gli incarichi di supplenza annuale o fino al termine delle lezioni sono stati 186.004, di cui circa la metà per posti di sostegno. Questi vuoti si concentrano, oltre ai già citati posti di sostegno, proprio nelle materie comuni a tutti gli indirizzi (italiano, matematica e inglese) e rischiano di aumentare con i pensionamenti dei prossimi anni.

Considerando poi il trend dei trasferimenti (circa 50 mila docenti ogni anno), possiamo affermare che la difficoltà di reperire docenti in quelle materie si farebbe sentire, in modo crescente, andando da Sud verso Nord, dal centro alle periferie e dai professionali ai tecnici sino ai licei.

Insomma, riducendo dall'oggi al domani il numero di alunni per classe, costringeremmo un folto gruppo di studenti a non potersi iscrivere nella scuola che desiderano e a dover ripiegare in un'altra scuola, rimanendo per mesi senza docenti di italiano, matematica e inglese.

Non si può far nulla, quindi? In realtà sì, con la programmazione. La curva demografica italiana mostra un calo consolidato delle nascite in atto ormai da anni. Se i nati tra il 2002 e il 2009 hanno oscillato intorno alla cifra di 560-570 mila unità, a partire da quell’anno il calo è stato costante e lineare, sino ai circa 400 mila nati nel 2020. Negli ultimi anni sono diminuite le iscrizioni nelle scuole del primo ciclo, portando alla chiusura di diversi plessi e all’accorpamento tra istituti, e, tra poco, lo faranno anche quelle del secondo.

Sebbene il calo delle nascite non sia, in sé, una buona notizia, tuttavia ci potrebbe consentire di gestire in modo graduale la riduzione del numero di alunni per classe, evitando i problemi evidenziati e programmando, per tempo, il fabbisogno di strutture e di personale che ci servirà tra 5-10 anni.

Se vogliamo affrontare i problemi in modo serio e nella loro complessità, dobbiamo volgere lo sguardo al futuro e programmare interventi che avranno effetto nel medio-lungo periodo. Purtroppo, per la politica italiana tutto questo è praticamente impossibile, in quanto l’orizzonte temporale si misura sui giorni, non sugli anni. E allora, per il ministro di turno, sarà sempre più facile lamentarsi delle classi pollaio, promettere di abolirle e poi non fare un bel niente.