Questo articolo fa parte dello speciale Ritorno a scuola
I figli degli immigrati rappresentano il futuro delle nostre società, afflitte dall’invecchiamento demografico. Negli ultimi vent’anni, la quota di alunni di origine immigrata in Italia è decuplicata, passando dall’1% dell’anno scolastico 1998-1999 al 10% del 2018-2019 (dati Miur 2020). Non solo: due terzi degli studenti con cittadinanza straniera sono in realtà nati in Italia (e sono ancora vergognosamente in attesa di essere riconosciuti come nostri concittadini). Se pure i neo-arrivati e i minori non accompagnati sono ancora molti, il peso crescente delle seconde generazioni testimonia un processo di stabilizzazione delle famiglie immigrate, che va ben oltre la retorica dell’emergenza.
L’istruzione dovrebbe costituire la strada maestra per l’integrazione e la mobilità sociale dei giovani stranieri, ma è noto che essa è un’arma a doppio taglio nel processo di riproduzione intergenerazionale delle diseguaglianze. La crisi pandemica ha reso evidente la distanza che separa il nostro sistema formativo dall’ideale di eguaglianza di opportunità. Ma attenzione: è proprio la chiusura delle scuole ad aver acuito i divari di risorse educative a disposizione delle famiglie. Non è infatti una novità che i periodi di sospensione delle attività scolastiche, ad esempio durante le vacanze estive, vedano un divaricarsi delle curve di apprendimento fra studenti più e meno avvantaggiati. È dunque necessario interrogarsi sul ruolo potenzialmente perequativo della scuola, anche nei confronti degli studenti di origine straniera.
In Italia, il dibattito pubblico sulla situazione degli studenti stranieri è troppo spesso superficiale, anche perché tendiamo a ignorare le esperienze degli altri Paesi. Da un lato, la retorica dell’accoglienza e dell’intercultura minimizza i problemi specifici che derivano dalla condizione di studente straniero. Dall’altro, le misure messe in campo sembrano pensate più per parlare alla pancia degli italiani che per rispondere in maniera efficace a questi problemi. Si pensi al tetto del 30% degli stranieri per classe introdotto dalla ministra Gelmini per «proteggere» gli studenti italiani.
Un secondo motivo per cui dovremmo interessarci a quanto avviene fuori dai nostri confini è che, non di rado, gli stranieri sui banchi europei siamo noi. Storicamente, gli immigrati di origine italiana riscontrano notevoli difficoltà di integrazione: insieme a quelli provenienti da Turchia e Maghreb, sono spesso descritti come una minoranza problematica. E anche se oggi l’Italia è ormai a tutti gli effetti una società di immigrazione, i flussi in uscita non si sono mai fermati: solo nel 2017, sono stati più di 128.000 gli italiani che hanno deciso di spostare all’estero la propria residenza.
Qual è, dunque, la situazione degli studenti stranieri in Europa? Sebbene questa condizione nasconda una grande eterogeneità, in media gli studenti di origine immigrata registrano outcome peggiori rispetto ai compagni autoctoni, innanzitutto in termini di livelli di apprendimento e competenze acquisite. La realizzazione di una piena eguaglianza di opportunità formative per i figli degli immigrati si scontra con numerosi ostacoli strutturali, innanzitutto di ordine socio-economico. Ma non è solo una questione di classe. Nella maggior parte dei Paesi europei, uno svantaggio persiste anche al netto dell’origine sociale: è ciò che in letteratura si chiama ethnic penalty e indica una penalizzazione espressamente legata allo status migratorio.
La realizzazione di eguali opportunità formative per i figli di immigrati si scontra con numerosi ostacoli strutturali, non solo di ordine socio-economico. Uno svantaggio persiste anche in ottica di ethnic penalty, una penalizzazione espressamente legata allo status migratorio
Per quanto riguarda le traiettorie formative, il quadro è più articolato. È vero che, in tutta Europa, gli studenti stranieri sono sovrarappresentati nei percorsi professionalizzanti, hanno carriere scolastiche più discontinue, segnate da ritardi o veri e propri abbandoni, e ancora troppo raramente si iscrivono all’università. Tuttavia, alcuni elementi spingono a un moderato ottimismo. Innanzitutto, la ricerca indica chiaramente che è in corso un processo di progressiva assimilazione: ovunque, gli esiti scolastici delle seconde generazioni tendono a essere migliori rispetto a quelli delle prime, e all’interno di queste ultime l’età all’arrivo è un elemento decisivo in grado di predirne il successo.
In secondo luogo, i ritardi di apprendimento non si traducono necessariamente in traiettorie scolastiche fallimentari. In molti contesti, infatti, è stato riscontrato come gli studenti stranieri tendano a effettuare scelte più ambiziose rispetto a compagni autoctoni con un rendimento scolastico simile. Anche in Italia, l’esperienza delle coorti più recenti sembra testimoniare un livello di ambizione in crescita fra i giovani immigrati. Secondo il paradigma stratificazionista classico, le elevate aspirazioni degli studenti stranieri costituiscono un’anomalia, perché ci si aspetta che i gruppi sociali più deboli siano particolarmente cauti nell’intraprendere percorsi scolastici difficili. Ma ciò testimonia come sia necessario rivedere i nostri schemi concettuali. Non è infatti possibile dare conto dell’esperienza delle seconde generazioni in Europa senza considerare aspetti come la distanza linguistica, la specificità del capitale culturale, ma anche il desiderio di ascesa sociale tipico di questi gruppi.
Le analisi comparative mostrano che i divari educativi fra studenti stranieri e autoctoni variano notevolmente non solo a seconda del Paese di origine, ma anche fra società riceventi. L’organizzazione del sistema scolastico riveste un ruolo decisivo per spiegare questa eterogeneità. In particolare, tre sono gli aspetti istituzionali cruciali: l’età di ingresso nel sistema formativo, la separazione dei percorsi durante la scuola secondaria (tracking) e la segregazione scolastica.
I divari educativi tra studenti stranieri e autoctoni variano molto. Tre sono gli aspetti cruciali: l’età di ingresso nel sistema formativo, la separazione dei percorsi durante la scuola secondaria e la segregazione scolastica
Un aspetto spesso trascurato dalla ricerca comparata sui sistemi di istruzione è il loro grado di copertura, ossia quanti studenti riescono effettivamente a raggiungere, quanto a lungo, e con quale intensità si svolgono i processi di apprendimento. Eppure, questa dimensione è estremamente rilevante. I sistemi che coinvolgono i bambini fin dalla tenera età, per esempio, sono quelli più attrezzati a ridurre le diseguaglianze di partenza. Per i bambini di origine straniera, in particolare, l’ingresso nella scuola dell’infanzia o primaria rappresenta una occasione di parlare la lingua del Paese di destinazione in maniera continuativa con adulti e bambini madrelingua. La socializzazione che avviene all’interno del contesto pre-scolastico non riguarda solo gli aspetti linguistici, ma anche l’acquisizione di norme sociali e codici culturali che verranno poi dati per scontati nelle fasi successive del percorso formativo.
Esiste ormai evidenza empirica consolidata sul fatto che la differenziazione precoce delle filiere scolastiche (tracking) è un elemento in grado di aggravare le diseguaglianze socio-economiche in ambito di istruzione. Si è quindi ipotizzato che questa pratica possa essere dannosa anche per i processi di apprendimento e per la progressione scolastica degli studenti di origine immigrata. In realtà, il giudizio sul tracking deve essere sfumato in ragione di due elementi che provengono dall’evidenza empirica: in primis, gli studenti stranieri impiegano tipicamente più tempo per dimostrare il proprio potenziale; in secondo luogo, hanno spesso aspirazioni educative più elevate rispetto ai compagni autoctoni. La differenziazione dei percorsi è dunque pericolosa quando avviene troppo presto o quando è eccessivamente rigida. Al contrario, i sistemi in cui il tracking è basato sulla libera scelta e che spostano tale scelta più in là, o che comunque prevedono possibilità di ripensamento, possono addirittura favorire le carriere scolastiche dei figli di immigrati.
Nel dibattito pubblico – non solo italiano – molta attenzione viene data alle «scuole ghetto» e ai timori che un’alta concentrazione di studenti immigrati possa danneggiare i compagni autoctoni, rallentandone i processi di apprendimento. In realtà, sulla base della letteratura sull’influenza dei pari, questa paura non sembra essere fondata. Al limite, la segregazione scolastica rischia di avere un effetto negativo sui risultati scolastici degli stessi studenti immigrati. Infatti, stare in una classe dove i livelli di partenza non sono omogenei tende ad accelerare l’apprendimento degli studenti deboli più di quanto non rallenti quello dei forti. Più rilevante, poi, sembra essere un secondo aspetto. Nei sistemi scolastici in cui le risorse su cui possono contare i singoli istituti dipendono fortemente dall’utenza che riescono ad attrarre, la segregazione può portare a una concentrazione di risorse educative in alcune scuole a scapito di altre. È questo il caso dei sistemi in cui l’istruzione è regolata da una logica di mercato o quasi-mercato, dove le famiglie con più mezzi rifuggono dalle scuole pubbliche o da quelle di quartiere, o addirittura cambiano quartiere in previsione dell’ingresso a scuola dei figli (il cosiddetto fenomeno del white flight). Anche quando il sistema scolastico è prevalentemente pubblico, l’allocazione delle risorse può dipendere dal bacino di utenza se gli istituti sono dotati di autonomia finanziaria e gestionale. La combinazione di segregazione scolastica e decentramento amministrativo rischia di danneggiare soprattutto gli studenti più deboli, fra cui quelli di origine immigrata, i quali si troveranno con maggiore probabilità davanti insegnanti meno capaci, o, in ogni caso, vittime di un continuo turnover. La fuga degli insegnanti più qualificati dalle scuole svantaggiate è stata, infatti, ampiamente documentata per il caso statunitense e il fenomeno sembra in via di diffusione anche in sistemi dove l’autonomia scolastica è limitata, come la Norvegia, la Danimarca, e la stessa Italia.
Come fronteggiare il fenomeno della segregazione scolastica? In parte, questo è un campo che compete alla politica urbana. Ma per limitarci alla politica educativa, una possibile strada è quella degli interventi redistributivi a favore delle scuole più in difficoltà. Ad esempio, in Belgio l’allocazione delle risorse finanziarie ai singoli istituti dipende da un quoziente che tiene in considerazione il background socio-economico degli studenti, gli eventuali bisogni educativi speciali, il numero di studenti stranieri di recente arrivo. Tali risorse possono essere utilizzate per acquistare strumenti didattici aggiuntivi, ma anche per assumere più personale o per offrire degli incentivi ai docenti che decidono di insegnare in tali scuole. Sistemi simili sono in vigore in Francia, in Olanda, nel Regno Unito e in Germania: storicamente, alcuni hanno funzionato meglio di altri, e proprio sulla base di queste esperienze varrebbe la pena di ragionare su come contrastare la marginalizzazione degli studenti stranieri nel sistema scolastico italiano.
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