Milano, 10 giugno 1940. Virgilio Tosi, un ragazzino di appena quattordici anni e mezzo, si avvia all’«inizio di una nuova vita», fiero di conquistare «l’indipendenza almeno parziale dalla famiglia» (p. 23): è il suo primo giorno di lavoro come apprendista ragioniere alla ditta Marathon, filiale italiana delle acciaierie Deutsche Edelstahlwerke di Krefeld, ma non fa nemmeno in tempo a sedersi alla scrivania perché la direzione comunica che tutto il personale deve recarsi immediatamente in piazza Duomo per ascoltare il discorso del Duce alla nazione.
È il primo clamoroso intreccio di vita privata e grande storia; e da qui cominciamo a seguire l’adolescenza dell’autore – l’impiego arido nell’ufficio «acciai speciali» di un’azienda strategica, i riflessi quotidiani della guerra fascista in un’Italia che appare a volte distaccata e più spesso disorientata, l’occasione di un nuovo posto di lavoro a Roma presso l’Ente Teatrale Italiano, la vertigine di vivere da solo, a diciassette anni, a stretto contatto con la scena artistica della capitale.
Elemento chiave è la passione profonda dell’autore per il mondo dello spettacolo, già viva quando il giovanissimo Virgilio può entrare alla Scala grazie ai costosi biglietti che Herr Neumann, il gerente della Marathon – ebreo, e per questo guardato con sospetto dalle autorità del Reich – è costretto ad acquistare ogni volta a Milano passano artisti germanici. Tosi adolescente può ascoltare così dalle altrimenti inavvicinabili poltrone di platea I maestri cantori e Tristano e Isotta, il Wagner imposto dalla Deutsches Haus ai melomani meneghini, «anche se la rivelazione […] fu Così fan tutte di Mozart» (p. 29): è l’inizio casuale di un’educazione alla musica e al teatro che l’autore affinerà nei decenni successivi – il primo passo su una strada che percorrerà per tutta la vita, fino ad oggi, senza stancarsene mai.
Virgilio Tosi è una figura atipica nella scena culturale italiana del Novecento. Pur essendo uno dei massimi studiosi mondiali di cinema scientifico, amico di grandi artisti – da Zavattini a Strehler, da Damiano Damiani a Vittorio Gassman – e autore di un testo fondamentale sulle origini della cinematografia (Il cinema prima di Lumière, uscito nel 1984 ma ripubblicato con aggiornamenti nel 2007), ha vissuto appartato, da testimone più che da protagonista, e le sue memorie giovanili sono soltanto il primo interessantissimo frammento della sua lunga avventura intellettuale e umana: Storia di un'adolescenza breve, Carocci 2015.
Non è prosa d’arte; sono pagine scritte con uno stile che definirei trasparente, del tutto privo dell’autocompiacimento che talvolta affiora in questo genere di testi, ironiche e nitide, distaccate e coinvolgenti. Sono immagini del nostro Paese che sprofonda nella voragine della guerra mondiale, in cui la vita quotidiana prosegue, tenace, nell’orizzonte sempre più cupo del conflitto; sono la testimonianza dell’energia di un ragazzo che diventa adulto prima del tempo, reso più forte dalla passione per la cultura, per i testi teatrali, per le immagini che scorrono sugli schermi dei cinema del centro di Milano e poi di Roma, per le interpretazioni degli attori che «va a stanare nei camerini dopo gli spettacoli […] con l’incoscienza e la sfrontatezza del sedicenne», collezionando incontri indimenticabili – Paola Borboni affascinante e disinibita, che lo intrattiene a discutere di Pirandello; Eduardo De Filippo che gli racconta con passione il tema di un soggetto cinematografico mai realizzato; Sergio Tofano, allora all’apice del successo, «uomo carismatico ma gentile, affabile, che non si è mai sottratto alle mie richieste di discutere con lui di teatro» (p. 93).
C’è molto da imparare dal racconto di questa adolescenza breve. È una prova di come l’amore per la bellezza e l’arte sia senza età, e possa cominciare prestissimo nella vita di un uomo; è un memento sull’importanza della costanza e della pratica quotidiana anche nelle attività intellettuali, per costruire, giorno dopo giorno, la cultura necessaria ad affrontare con equilibrio e consapevolezza l’analisi del reale. E ci ricorda come una carriera fortunata – nel caso di Virgilio Tosi, una vita intera vissuta da libero pensatore tra teatro, cinema e documentari – si manifesti come una sorta di dialettica continua tra entusiasmo e fatica, possibilità e fortuna. Il giovanissimo autore visse infatti i propri anni formativi in un ambiente che, nonostante tutto, offriva molto ai suoi appetiti di critico teatrale e cinematografico in formazione, ed ebbe la fortuna di saper scegliere e saper sfruttare ogni ora utile, ogni spettacolo cinematografico, ogni discussione con attori e registi, mentre lottava con la solitudine, le inquietudini dell’adolescenza, la fame e le difficoltà della maturità classica da conseguire a qualsiasi costo, per averlo promesso a se stesso e ai genitori «di modestissima condizione sociale».
La storia si affaccia spesso nelle pagine del diario di Virgilio Tosi, sovrapponendosi alla storia personale che l’autore ha ricostruito grazie a decine di piccole agende in cui riportava, con meticolosa e nordica cura, ogni appuntamento, ogni impegno, ogni persona incontrata e ogni spettacolo visto. L’autore si sposta da Milano a Roma; qui, grazie alla buona impressione fatta l’anno precedente a Nicola De Pirro – direttore generale del MinCulPop – presentando due testi su teatro, radio e cinema, trova impiego come critico dell’Eti. Per Tosi è l’inizio di una nuova avventura, decisiva per il suo destino, che vive comunque senza perdere la consapevolezza della grande tragedia in cui l’Italia si trova coinvolta.
Il 13 maggio del 1943 scrive al padre Edoardo una lettera ricchissima di spunti di riflessione, che dimostrano come fosse possibile, anche per un ragazzo di diciassette anni, formarsi idee originali sulla situazione del Paese e sul suo futuro. Ne riporto alcuni passi: «noi [italiani], oggi, non siamo ancora un popolo ben amalgamato», osserva il giovane Virgilio, «e senza di questo non si deve aspirare a grandi cose. Può darsi che questa guerra e le sue conseguenze abbiano buoni risultati a questo riguardo e io – a costo di pensare a una sconfitta – lo vorrei quasi sperare […] Quanto poi alle tue idee sui tedeschi e sui russi ti dirò che non sono per niente d’accordo. Ti faccio presente che al vecchio ufficio sono stato due anni tra tedeschi nazionalsocialisti. […] Inoltre ho parlato molto e sentito moltissimo non a proposito del popolo tedesco in se stesso, ma del governo nazista. A seguito di tutto, ti dirò che ho paura di questo sistema e sinceramente mi auguro che non abbia a sopravvivere a questa guerra, perché altrimenti noi dovremmo amaramente provare una forma assoluta di egemonia e di imperialismo che non ci è possibile immaginare. Quanto ai russi, peggio ancora» (p. 81).
L’Adolescenza breve di Tosi non è uno “studio storico”, come vorrebbe il titolo della collana di Carocci in cui il testo è inserito. È al tempo stesso qualcosa di meno e qualcosa di più: non ha, ovviamente, l’ambizione di analizzare un periodo cruciale della vita del nostro Paese nelle sue implicazioni politiche, sociali e culturali con i mezzi di cui deve servirsi uno storico, ma offre una testimonianza lucidissima fondata su dati personali registrati con attenzione, e poi due volte filtrati, due volte fatti decantare nel tempo per i lettori di questa nostra epoca priva di certezze: prima dalla coscienza sorprendentemente matura di un ragazzo dall’intelletto vivacissimo, affamato di esperienza ma capace di mantenersi fedele ai propri obiettivi e ai propri ideali; poi dalla saggezza e dall’equilibrio intellettuale che solo una vita ben vissuta può donare alla vecchiaia.
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