La traduzione italiana del testo di Dieter Grimm sulla sovranità – promossa dall’editore Laterza e realizzata da Olimpia Malatesta, una delle studiose più attente e critiche della tradizione ordoliberale tedesca – ci offre un punto di vista autorevolissimo su uno di quei concetti destinati, forse, a non scomparire mai, nonostante l’auspicio del grande giurista Hans Kelsen oltre cento anni fa. Di sovranità giuristi e scienziati della politica continueranno a parlare a maggior ragione se, come sembra purtroppo sempre più evidente, il mondo nel quale viviamo è destinato a veder moltiplicati i conflitti, anche militari, tra Stati e vanno incrinandosi le aspirazioni di una “globalizzazione del diritto” che li avrebbe resi quantomeno economicamente svantaggiosi.
Dunque, sovranità: questo concetto, scrive Grimm, “deve il suo ruolo chiave a un precisa costellazione storica […] segnata dallo scisma religioso del sedicesimo secolo che ha fatto cadere il vecchio ordine politico del Medioevo, creando una nuova forma di potere” e dunque “occorre considerare soprattutto le circostanze, le idee e gli interessi ai quali le varie concezioni della sovranità devono la propria origine”. Deciderà il lettore se e quanto questo tentativo di Dieter Grimm, che inizia le sue ricerche con Bodin, possa dirsi riuscito. Qui interessa proporre tre questioni, di cui due riguardano l’analisi di Grimm e una l’introduzione di Geminello Preterossi, che apre il volume.
La prima riguarda il rapporto tra sovranità e federalismo. Il testo di Grimm, pur nella necessaria sintesi, tocca quest’aspetto anche dalla prospettiva tedesca (dopo aver affrontato efficacemente quella statunitense e quella svizzera), spesso ormai ignorata in Italia. Una prospettiva che ha che fare con le diversissime storie nazionali e con i processi di unificazione nazionale che seppur simili (penso ai lavori di Gian Enrico Rusconi) non potrebbero essere più diversi. La Germania, infatti, con il 1871 si trasforma da Reich plurinazionale in uno Stato (con)federale; in Italia, nonostante i tentativi di una Lega precedenti al 1848 e poi alle ipotesi federaliste precocemente abbandonate, lo Stato è unitario e centralista. L’impatto che la diversità di storie ha sulla tradizione costituzionale dei due Paesi è a mio avviso considerevole ed è una delle ragioni per cui ancora oggi resta persino complicato tradurre in italiano il termine Kompetenz-Kompetenz (condivido la scelta della traduttrice di lasciare anche l’originale tedesco nel testo italiano), al centro di un infuocato dibattitto dopo il 1871 per capire cosa fosse il nuovo Reich tedesco e che rapporto avesse con gli Stati membri.
I tedeschi, quindi, hanno un’idea della sovranità già relativizzata rispetto ad altre tradizioni, nel senso che conoscono gli strumenti per un suo uso privo di quei caratteri della illimitatezza e della indivisibilità. Qui c’è a mio avviso una chiave per comprendere anche le decisioni del Tribunale costituzionale federale sulle questioni europee, sulle quali Grimm, a ragione, si dilunga. Più che fissare il problema in termini di sovranità assoluta (“su queste materie decide la Germania”, tesi consacrata da Sabino Cassese nell’immagine del “guinzaglio tedesco”) credo che Karlsruhe abbia tentato, faticosamente ma in modo coerente, di cesellare la distribuzione delle competenze tra Bruxelles e gli Stati membri in un contesto in cui non esiste un soggetto sovrano esclusivo ma una rete di rapporti tra gli Stati membri e con la Ue. Tant’è che dalla sentenza su Lisbona (2009) siamo arrivati a quella sul cosiddetto Piano Draghi (2020) che ha rappresentato l’uso della “bomba atomica” da parte di Karlsruhe, vale a dire sostenere che quel piano, incostituzionale, “non dovesse essere applicato” in Germania (recuperando una formula degli anni Settanta).
I tedeschi hanno un’idea della sovranità già relativizzata rispetto ad altre tradizioni
Ma anche questa “bomba atomica” non sta in uno spazio giuridico vuoto, ma risponde alle regole che Karlsruhe e la Corte del Lussemburgo si sono date e, quindi, a una miscela di norme costituzionali (nazionali) e dei Trattati. Tant’è che la sentenza, più che colpire il piano Draghi, puntava a incrementare il dialogo con la Corte di giustizia europea, che, va detto tra parentesi, è una delle istituzioni più lontane dai cittadini europei, a differenza di Karlsruhe che è quella più amata in Germania: “ci vediamo a Karlsruhe” è per i tedeschi il compimento dello Stato di diritto e la sua maggior garanzia. Una corte potentissima: di recente ha persino bocciato la finanziaria del governo, dichiarandola incostituzionale, creando non pochi grattacapi all’attuale maggioranza politica, che infatti rischia di implodere. Qui mi sembra evidente l’evoluzione del concetto storico di sovranità dentro la nuova costellazione storico-istituzionale dell’Unione europea, che comunque resta per Grimm un soggetto non sovrano, perché incapace di autodeterminarsi ma responsabile “solo” delle competenze che le vengono espressamente attribuite dagli Stati.
Dunque, pur nella similitudine delle tradizioni – Italia e Germania dopo l’esperienza fascista e nazionalsocialista si dotano di corti costituzionali che possano annullare le decisioni dei Parlamenti – c’è ancora da riflettere sulle concrete differenze tra queste due esperienze.
Qui a mio avviso c’è un elemento essenziale per il futuro dell’Europa soprattutto nella fase attuale, che torna a vedere protagonisti gli Stati e i governi nazionali. La conoscenza reciproca e, soprattutto, la capacità di cogliere le differenze nelle diverse storie e identità costituzionali sono elementi essenziali per superare le difficoltà attuali del processo di integrazione: a maggior ragione per due Paesi fondatori come Italia e Germania destinati sempre più a un inevitabile allontanamento qualora non venga fatto nulla per fermare gli effetti dell’estraniazione strisciante. La tesi di Grimm mi pare molto più europeista di quello che spesso si pensi: proprio in questa fase di superamento dell’even closer union verso una ever closer cooperation, il lavoro di ulteriore integrazione non è garantito da una sorta di marcia forzata verso la federazione – che anzi rischia di incontrare le resistenze dei popoli, come è già successo in Europa orientale – ma nella capacità di intervenire approfondendo la cooperazione in settori chiave.
La seconda questione riguarda il già citato Hans Kelsen, la sua proposta di un superamento del concetto di sovranità e la sua scarsa presenza nel dibattitto tedesco, perlomeno rispetto alla rilevanza che ha assunto in quello italiano. Come è stato notato, la scelta è probabilmente figlia della preferenza di Kelsen per la teoria della debellatio, vale a dire dell’idea della scomparsa della Germania come soggetto politico e giuridico dopo la Seconda guerra mondiale. Qui mi limito a segnalare come il dopoguerra sia stato diversissimo per i due Paesi e che potrebbe giovare alla comprensione reciproca – in vista dell’Ottantesimo della fine della guerra – per ragionare davvero in modo italo-tedesco sulle diversità di quella fase e di che impatto ha avuto sugli anni successivi e, in particolare, sulla definizione delle scienze giuridiche e di quelle politologiche nei due Paesi.
Infine, una nota sull’introduzione, anch’essa molto interessante per ri-avviare in Italia una discussione sulla sovranità. E la domanda che occorre porre è a mio avviso la seguente: ha davvero ragione Preterossi quando scrive che “Democrazia è sovranità”? O meglio: quali conseguenza ne traiamo?
La spersonalizzazione della politica conduce alla cancellazione dei luoghi e delle forme dove si può realizzare la politica, che sono e resteranno almeno nel prossimo futuro nazionali
L’orizzonte teorico da cui parte è chiaro: la spersonalizzazione della politica, condotta secondo Preterossi dal neoliberismo, conduce alla cancellazione dei luoghi e delle forme dove si può realizzare la politica, che sono e resteranno almeno nel prossimo futuro nazionali. Da qui l’idea che parlare di sovranità non è qualcosa solo di “populista”, come spesso si è portati a credere, ma rappresenta la condizione di esistenza stessa della politica, che o agisce in un contesto sovrano o non è. Lo sostiene anche Grimm: “Oggi la funzione più importante della sovranità è la difesa della facoltà di una società politicamente unita di decidere autonomamente e democraticamente sull’ordine a essa più adatto”.
Su questo, però, ho qualche dubbio. Non intendo riproporre qui il tema del passaggio di sovranità da nazionale a europeo – smentito anche da Grimm e dallo stesso Tribunale costituzionale federale – perché anche io, come Preterossi, credo che non ci si libererà facilmente dell’orizzonte nazionale, di quell’insieme di tradizioni culturali, storiche, costituzionali la cui pluralità rappresenta la vera cifra dell’identità europea. A mio avviso, il problema va posto in altri termini.
Se restiamo alla critica dell’azione neoliberista, non riusciamo interamente a prendere le distanze da quelle impostazioni, che pure tanti danni hanno fatto, che individuano nell’Unione europea esclusivamente la declinazione continentale della ricetta del dominio del mercato su scala globale. Il giurista e lo scienziato della politica che vengono fuori da una simile impostazione non riescono mai a entrare nel pieno delle difficoltà dell’integrazione e della europeizzazione della politica – che guardano con diffidenza – tantomeno a farsi interpreti in modo intelligente delle specificità nazionali, che non riescono più a mettere a fuoco e che spesso si limitano a rimpiangere.
Piuttosto il modo migliore per seguire le indicazioni di Grimm mi sembra sia quello di intensificare le cooperazioni nazionali, di lavorare a incrementare, dove possibile, la conoscenza reciproca che, purtroppo, cala con il dilagare di approcci paneuropei, “globalisti” o esclusivamente “sovranisti” (nel senso peggiore identificato da Preterossi). Nei prossimi anni saremo sempre più chiamati a smussare queste differenze se andremo nella direzione della ever more cooperation. In questo senso giuristi e scienziati della politica dovranno dare kelsenianamente il loro contributo: o contro le attuali impostazioni giuridiche (contro lo Stato, avrebbe scritto Fioravanti, nel senso di una critica del diritto) o lavorando per lo Stato e l’Ue, cioè definendo mediazioni possibili non solo nella stesura, complicata, di nuovi Trattati ma nel favorire appunto questa cooperazione per rafforzare l’autonomia strategica europea e dare continuità al sogno di un continente sempre più unito.
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