Curato da Antoine Courmont e Patrick Le Galès, Gouverner la ville numérique (Puf, 2019) affronta una questione di crescente importanza: le implicazioni dello sviluppo della platform economy e dei servizi digitali per le città. L’introduzione dei curatori ai quattro saggi contenuti nel volume esplicita l’adozione di un punto di vista critico rispetto al determinismo digitale che da due decenni ha inneggiato alle opportunità della digitalizzazione, incentivato da una intensa attività di marketing dell’industria digitale e accolta senza troppe remore dagli attori politico-istituzionali dei diversi livelli di governo.

La svolta decisiva nelle applicazioni digitali alle città risale a circa dieci anni fa, subito dopo la crisi finanziaria del 2008. Le iniziative di Ibm e Cisco sulle cosiddette smart cities come ricetta per risolvere i problemi urbani; la nascita di Uber e Airbnb con le loro promesse di disintermediazione, «condivisione», valorizzazione delle risorse individuali; l’ulteriore diffusione degli smartphones, con la trasmissione costante di dati alla Rete sono gli elementi chiave di questa svolta. Al centro della trasformazione ci sono le grandi quantità di dati estratti dalle città, più precisamente dai cittadini, sia che stiano utilizzando attivamente servizi, pubblici o privati, sia che li stiano producendo inconsapevolmente, come tracce online e offline dei loro comportamenti. La massa di questi dati è divenuta uno dei motori centrali dell’economia contemporanea, oltre che materia prima per l’industria della cosiddetta intelligenza artificiale.Al centro della trasformazione ci sono le grandi quantità di dati estratti dalle città, più precisamente dai cittadini, sia che stiano utilizzando attivamente servizi, pubblici o privati, sia che li stiano producendo inconsapevolmente, come tracce online e offline dei loro comportamenti

Con la loro popolazione, i loro densi spazi e flussi, le città sono da questo punto di vista un giacimento di dati strategico, fulcro dello sviluppo dei nuovi servizi. È qui che sempre più gli interessi dell’industria digitale si intrecciano coi servizi urbani di rete essenziali (mobilità, acqua, energia, rifiuti, ma anche sanità, scuola, servizi sociali, sicurezza). Inoltre, con il movimento per gli open data, si afferma l’idea che i dati di cui le amministrazioni sono depositarie possano essere una fonte preziosa per lo sviluppo economico, oltre che per la trasparenza dell’amministrazione stessa e la partecipazione dei cittadini: sebbene, viene sottolineato, a oggi sono soprattutto le imprese a trarre più vantaggi dall’apertura dei dati delle amministrazioni. Gli attori istituzionali che governano le città sono dunque tutti messi alla prova nella loro capacità di gestire i dati urbani, anche se è possibile immaginare e osservare diversi stili d’azione, alcuni dei quali prevedono di giocare un ruolo più attivo ed essere dunque più capaci di porsi in una relazione negoziale con gli oligopolisti del campo digitale. Va detto però che la consapevolezza della possibilità di giocare un simile ruolo non appare ancora così diffusa.

La forte individualizzazione dei dati favorisce una «rappresentazione singolarizzata dello spazio urbano», che sostituisce uno sguardo d’insieme e, per così dire, esterno. Questo mutamento si rispecchia in politiche sempre più tese al «governo delle condotte individuali». La «governamentalità algoritmica» si basa peraltro su informazioni proposte o imposte all’individuo basandosi sulle sue azioni passate con un effetto di «delimitazione delle condizioni della libertà». Si consoliderebbe quindi l’idea di una città basata sulla gestione centralizzata di grande masse di dati, ordinata, efficiente ma, poiché a gradi di libertà per così dire limitati, «senza politica».

Sono già molti gli effetti non positivi della comunicazione digitale: la polarizzazione, l’omofilia esasperata, la disinformazione, l’alienazione e la dipendenza, i bias spaziali introdotti dai motori di ricerca, le nuove forme di rischio tecnologico hanno esiti pesanti anche nei comportamenti offline. Più in generale, contro ogni facile determinismo, i curatori si chiedono se lo sviluppo digitale diminuirà, rifletterà o invece aumenterà le note criticità delle città contemporanee (segregazione, disuguaglianza sociale, inquinamento, violenza, solitudine, vulnerabilità ecc.) e che ruolo possano giocare gli attori istituzionali locali sugli effetti socio-economici «localizzati» dell’economia delle piattaforme.

Il saggio di apertura – di Thomas Aguilera, Francesca Artioli e Claire Colomb – è dedicato agli effetti urbani di Airbnb e ad alcuni tentativi di governarli. Il massiccio carattere commerciale delle locazioni da piattaforma (documentato in particolare dalla rete di attivisti di inside-airbnb) ha infatti un impatto significativo sul mercato immobiliare, sulla distribuzione dei residenti e degli esercizi commerciali, sul settore alberghiero, sulle entrate fiscali e sulle tasse turistiche. Sono diversi i protagonisti locali che favoriscono l’ingresso di queste questioni nell’agenda pubblica e diverse sono le configurazioni degli attori più coinvolti, anche in relazione agli intrecci di competenze amministrative presenti in ciascuna realtà. Per capire i modelli di relazione fra amministrazioni e piattaforme questi aspetti contano di più della caratura turistica o dei tratti del patrimonio abitativo.

Così, in Europa, Barcellona si è distinta per la centralità dei movimenti sociali attivi sulla questione: non a caso la sindaca Ada Colau proviene dalle fila del movimento per la casa e ha precocemente promosso una netta distinzione fra affitti commerciali e reali condivisioni e altre importanti misure di contenimento (come le quote per quartiere). Differente è il modello di Parigi, dove si è passati da una regolazione più soft a una più stringente solo dopo che si sono rafforzate le mobilitazioni dei cittadini. A Milano il contesto culturale e politico molto favorevole alla sharing economy ha inizialmente prodotto un approccio volto alla legalizzazione piuttosto che al contenimento del fenomeno, ritenuto soprattutto una risorsa (anche in vista di Expo 2015). Se le misure regolative adottate variano molto, per tutte le città il problema dei controlli è un forte vincolo, data la scarsità di dati forniti dalle piattaforme e l’ampiezza del fenomeno da monitorare. A ciò si aggiunge l’attivismo delle piattaforme con forme di lobbying, cooptazione, campagne comunicative, e anche mobilitazione dei propri host.

Nel secondo saggio, dedicato alla «politica delle sperimentazioni urbane» che utilizzano le città per testare le innovazioni tecnologiche e il relativo comportamento degli utenti, Brice Laurent, David Pontille e Félix Talvard affrontano in particolare i casi di San Francisco e di Singapore. Qui, nel 2016, sono state avviate due importanti iniziative: nel primo caso la sperimentazione di un sistema per la mobilità fondato su incentivi individuali al trasporto non motorizzato; nel secondo un sistema collaborativo di modellazione tridimensionale della città. Per i promotori pubblici e privati l’effetto dimostrazione a scala urbana è considerato non solo un elemento di test e messa a punto dei prodotti, ma un potente strumento di marketing da far valere sul mercato globale. Ci sono contraddizioni impreviste rispetto a questi obiettivi: gli open data di Singapore la espongono a rischi di minacce esterne; mentre all’idea di una condivisione dei dati per rendere più efficiente la mobilità a San Francisco si contrappone l’iniziativa di un ampio progetto di attivisti (antievictionmap project) che fornisce strumenti di visualizzazione utili alle lotte sociali dell’area.

Nel terzo saggio Bilel Benbouzid riconduce il successo dell’applicazione della cosiddetta «polizia predittiva” ai vantaggi che questa tecnica permette nella gestione del personale. L’autore analizza il caso di Predpol, impresa californiana leader nel settore, grazie a un attento marketing presso amministratori e capi della polizia e nonostante i limiti della piattaforma (errori sistematici, parzialità e opacità), denunciati anche da associazioni del settore. Grazie a Predpol è possibile tracciare luoghi e tempi della presenza degli agenti, «dosando» meglio l’azione della polizia per evitare quindi gli eccessi visibili cui avevano portato i modelli di gestione precedenti basati sulla quantità dei controlli eseguiti dagli agenti.

Chiude il volume un saggio di Dominique Cardon e Maxime Crépel, che analizza alcune recenti «controversie» sugli algoritmi, come quella che ha riguardato Waze durante l’emergenza provocata dagli incendi in California nel 2017. La piattaforma guidò molti automobilisti verso zone pericolose: l’algoritmo non teneva infatti conto né delle indicazioni delle forze dell’ordine, né della mappa degli incendi in rapida evoluzione. I criteri adottati dagli algoritmi per la scelta dei percorsi sono di fatto attualmente molto limitati, non considerano criteri estetici, energetici, né di sicurezza stradale. Lo spazio da attraversare è concepito come omogeneo, non regolato da specifiche norme o problematiche. Non è un caso che sia soprattutto nelle emergenze che gli algoritmi falliscono, come si è visto anche a Londra dopo l’attentato del 2017 con l’impennata dei prezzi di Uber, a fronte delle corse gratis dei tassisti. Ciononostante le criticità degli algoritmi riescono ad emergere quasi esclusivamente quando se ne fanno carico figure tecniche e autorevoli. Così è successo per Uber, per cui sono state soprattutto ricerche accademiche prestigiose a portare nel dibattito pubblico i drivers fantasma, gli enormi squilibri di guadagni fra drivers uomini e donne, la forte discriminante razziale: insomma un problema crescente di nuove forme di discriminazione digitale, con l’esclusione dall’accesso ai servizi o una radicale ridefinizione dei prezzi in relazione ai profili degli utenti.Si apre così, e con maggior evidenza nelle città, un ampio terreno di conflitto fra principi di "uguaglianza, lealtà, privacy, autonomia dei soggetti, efficacia" da un lato e funzionamento concreto degli algoritmi che costituiscono il cuore delle piattaforme

Si apre così, e con maggior evidenza nelle città, un ampio terreno di conflitto fra principi di «uguaglianza, lealtà, privacy, autonomia dei soggetti, efficacia» da un lato e funzionamento concreto degli algoritmi che costituiscono il cuore delle piattaforme. Si può quindi ben concordare con le conclusioni di Cardon e Crépel, secondo cui lo squilibro fra i dati preziosi a disposizione degli attori pubblici e quelli estesi e diacronici controllati dalle piattaforme costituisce oggi una sfida cruciale per la governance urbana, e non solo. A tempo debito, sarà interessante fare un bilancio e una riflessione su quale ruolo abbiano giocato i dati – chi li possiede e come li gestisce – nell’attuale crisi derivante dalla diffusione del Coronavirus.