Una scuola di qualità per tutti. È l’obiettivo della scuola italiana del terzo millennio nel discorso pubblico e nelle dichiarazioni del governo Renzi, che si proclama il primo a fare dell’istruzione la priorità assoluta (per la verità non è il primo, almeno a proclamarlo). E, secondo la ministra Giannini, per raggiungerlo si deve accentuare l’autonomia scolastica attraverso una politica di semplificazione, programmazione, valutazione, internazionalizzazione.

Nonostante apprezzabili misure varate o annunciate, dall’edilizia ai nuovi concorsi, lo scetticismo è inevitabile. Non solo perché altri fatti vanno in senso contrario agli annunci, sotto l’ombra minacciosa della spending review, o perché si resta sul vago circa i contenuti, come se non fossero il cuore di un’istruzione di qualità. Ma soprattutto perché si dovrebbe almeno riconoscere che, dalla sua introduzione nel 1997, l’autonomia scolastica ha prodotto finora più che altro disuguaglianza.

In teoria, l’autonomia potrebbe facilitare quella rimozione degli ostacoli alla partecipazione di tutti i cittadini alla vita della Repubblica di cui parla la Costituzione, modulando (alcuni) suoi contenuti, metodi e ritmi per promuovere le nuove generazioni di una società complessa e plurale. Diventa rischiosa quando la scuola è concepita come un servizio pubblico tra tanti, se non un’azienda, che risponde alle esigenze dell’utenza (ovviamente secondo il livello sociale) e alle indicazioni immediate della politica. Se si aggiungono tagli lineari, incertezza nel guidare il processo, regionalizzazione, inadeguata composizione del corpo docente, un sistema di esternalizzazione delle attività che sembra fatto apposta per alimentare burocrazia, clientelismo e disparità, la “scuola di qualità per tutti” nell’autonomia è, al meglio, un’ambizione.

Per fare davvero del sistema educativo “la leva essenziale per la crescita civile, lo sviluppo economico e l’equità sociale”, come dice la ministra, occorre ben altro che una più accorta gestione. Lo Stato non impartisce più direttamente l’istruzione, ma garantisce solo il livello del “servizio”? Lo faccia, allora, per tutti. L’autonomia deve essere ricondotta dentro un sistema nazionale più fermo che punti soprattutto sui docenti, quegli stessi che devono poi far vivere l’autonomia, alleggerendo invece (modernizzando e razionalizzando, si dovrebbe dire nel linguaggio del governo che annuncia di voler riformare tutta la pubblica amministrazione) i livelli intermedi della macchina burocratica.

In effetti, l’autonomia com’è oggi produce disuguaglianza anche per la reticenza di politica e accademia ad accettarne i risvolti organizzativi e latamente culturali, a “mollare la presa” assistendo però l’intero processo a monte, con la formazione e l’aggiornamento dei docenti, e a valle, con un serio sistema di verifiche ed esami. Ecco la semplificazione, programmazione e valutazione che servirebbero.

Non solo. Di questa vagheggiata scuola di qualità per tutti occorre pensare le implicazioni didattiche fino in fondo. Mettere mano ai programmi, ai cicli, agli strumenti di supporto.

Prendiamo ad esempio la storia, al contempo disciplina e ancora asse portante di gran parte dell’insegnamento, alla quale si affidano importanti funzioni di educazione alla cittadinanza e alla convivenza civile. E che per sua natura si presterebbe a essere modulata in autonomia nei temi come negli approcci didattici, a patto di avere padronanza della disciplina e dei suoi fondamenti metodologici ed epistemologici.

Il rifiuto della strumentalizzazione identitaria della storia, molto marcata nella riforma Moratti del 2004, ha guidato l’affermazione di un approccio in termini di storia dell’umanità che pure era stato uno degli aspetti più contestati della fallita riforma De Mauro del 2001. Ma tutto si muove entro un perimetro di caveat ideologici e ingiunzioni contradditore, oltre che di riduzioni d’orario. Poiché non è stato possibile intaccare il liceo di cinque anni (nonostante non coincida con l’obbligo), si è immaginato un percorso inefficace tra primaria e secondaria inferiore, invece di dedicare ai più piccoli una didattica laboratoriale ed esplorativa più adatta per capire il mutamento e la natura storica dell’ambiente in cui vivono e scoprire il patrimonio come chiedono le indicazioni ministeriali. Per inciso, la maggior parte degli insegnanti di primaria non ha mai seguito un’ora di storia dell’arte. Pur avendo ridotto le ripetizioni dell’arco cronologico-sequenziale della storia da tre a due, non si abbandona mai questo impianto per un approccio tematico trans-periodo che forse susciterebbe maggior curiosità nei ragazzi più grandi (reticenza che, paradossalmente, è più forte nei licei che negli istituti tecnici).

In ogni ordine e grado, comunque, da un lato si invita a progettare e sperimentare, dall’altro si insiste sulle competenze minime obbligatorie riconducendo l’insegnamento sui binari collaudati della manualistica. Manuali che, pur ampliando gli apparati, restano assai tradizionali in quelli che dovrebbero essere i punti qualificanti, ossia la storia globale e “interconnessa”. Si lascia un margine di libertà nella scelta di alcuni contenuti del corso, ma ciò non viene fatto per intrecciare la storia italiana e del mondo in funzione della composizione delle classi, ma per lo più in chiave di storia regionale grazie ai finanziamenti locali. Da un lato si insiste sulle novità della storiografia esperta, dall’altro non si fornisce ai futuri docenti adeguata formazione, con sistemi sempre mutevoli e comunque carenti, né si provvede a piani di periodico aggiornamento nazionale e obbligatorio, lasciando gestire le risorse (quando ci sono, e ora non ci sono) agli enti locali.

Con una recente circolare ministeriale, poi, si raccomanda la redazione di manuali fai-da-te: operazione insidiosissima in una disciplina che è sempre esposta allo slittamento tra storia e memoria, tra metodo scientifico e semplificazione più o meno strumentale. E che comunque cresce e si diversifica molto rapidamente. Non sarebbe meglio costruire un sito certificato o predisporre materiali didattici, magari in collaborazione con le società scientifiche? Risorse vengono sporadicamente dedicate a progetti e iniziative, per lo più svolte da associazioni e istituti. Ce ne sono di ottimi e attivissimi che sostengono i docenti più curiosi in quella che Ivo Mattozzi ha definito “l’arte di progettare il curricolo”. Ma non ovunque, non per tutti.

Insegnare è un’arte, d’accordo, ma non dovrebbe assomigliare all’altra italica arte di arrangiarsi. Se davvero la scuola di qualità per tutti è una priorità e non uno slogan, allora si deve avere il coraggio delle scelte. Magari si riuscirebbe pure a razionalizzare la spesa, se non addirittura a tagliarla.