Il 9 ottobre scorso il Consiglio dei ministri ha sciolto il Comune di Reggio Calabria per presunte infiltrazioni mafiose. La decisione era nell’aria e chiude il capitolo delle indiscrezioni, delle prese di posizione, delle contrapposte petizioni, degli scenari possibili e dei retroscena improbabili che hanno monopolizzato per mesi il dibattito pubblico cittadino. Si apre ora un altro capitolo, quello della traversata del deserto (18 mesi di commissariamento, prorogabili per altri 12) in cui la città, e la sua classe politica in particolare, dovrà tentare di riscattare l’immagine, già peraltro non molto smagliante, di “città mafiosa” impressa dallo scioglimento.
Delle 226 amministrazioni comunali sciolte in oltre un ventennio di applicazione della normativa, Reggio Calabria è il primo Capoluogo di provincia, nonché il comune più grande sul piano demografico. Appare dunque comprensibile il clamore che ha accompagnato la decisione presa dal governo. All’indomani di uno scioglimento, è quasi inevitabile che compaia nel dibattito pubblico locale l’argomento del complotto, generalmente addebitato a nemici politici interni alla città (spesso interni anche alla stessa maggioranza) o esterni a essa.
Delle 226 amministrazioni comunali sciolte in oltre un ventennio di applicazione della normativa, Reggio Calabria è il primo Capoluogo di provincia, nonché il comune più grande sul piano demografico
Reggio Calabria non fa eccezione a questa regola, sebbene con una variante non trascurabile dovuta al fatto che a sciogliere il Comune è un governo tecnico; presumibilmente meno propenso a farsi “tirare dalla giacchetta” (si pensi al caso del Comune di Fondi, guidato dal centrodestra, per il quale l’allora ministro Maroni chiese, per bene due volte ma invano, lo scioglimento) e che di Comuni ne ha sciolti 23 in 10 mesi, contro una media di circa 9 del quindicennio precedente. Essendo poco credibile la partigianeria del governo, i “nemici della città” sono stati indicati nei giornalisti. Alcuni di essi, in particolare, secondo quanto dichiarato dal presidente della giunta regionale, Scopelliti, costituirebbero “una cerchia ristretta (…) che non ha interesse per il bene della Calabria”. Pur con toni meno drastici di quelli berlusconiani, che non fece mistero del suo intento strangolatorio nei confronti di tutti coloro che scrivono libri sulle mafie, motivato dalla cattiva pubblicità che ne deriverebbe per il nostro Paese, Scopelliti ha comunque sottolineato che “lo scioglimento non è stato certo uno spot pubblicitario per tutta la Calabria”.
La sua irritazione è spiegabile: nella relazione della commissione d’accesso si legge infatti che l’amministrazione sciolta “si è posta su di una linea di continuità rispetto all’amministrazione che ha precedentemente governato la città”. Amministrazione di cui, negli ultimi 8 anni, Scopelliti era stato sindaco. Lo scioglimento, dunque, assesta un duro colpo al cosiddetto “modello Reggio” e, di conseguenza, alle ambizioni politiche di colui che ne è il principale simbolo e artefice.
Ma quali sono i motivi per i quali si è giunti allo scioglimento? Nella relazione della commissione d’accesso si trovano informazioni dettagliate su dipendenti comunali parenti di mafiosi, lavori e servizi appaltati a imprese mafiose, amministratori locali indagati per mafia, frequentazioni mafiose dei consiglieri e molto altro ancora. Quindi, all’amministrazione Arena le “relazioni pericolose” sembrano non mancare. L’analisi empirica degli scioglimenti mostra, tuttavia, che affinché si avvii la relativa procedura, c’è bisogno di un caso eclatante che catturi l’interesse dell’opinione pubblica e che, conseguentemente, spinga il prefetto e il governo a intervenire. Il “rischio mafia” è dunque una condizione necessaria, ma non ancora sufficiente. Nel caso di Reggio Calabria, l’iter che condurrà allo scioglimento è stato avviato dal prefetto il giorno dopo l’arresto di un consigliere comunale, già assessore all’urbanistica nella precedente giunta Scopelliti, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. A far da sfondo a questa e ad altre operazioni della magistratura che hanno toccato l’amministrazione comunale, c’è un significativo buco di bilancio che sarebbe improprio ricondurre soltanto alla presenza mafiosa. Uno strutturale squilibrio finanziario che, secondo una relazione della Corte dei conti del maggio 2012, avrebbe portato, in mancanza di adeguati provvedimenti da parte degli amministratori locali, al dissesto economico dell’ente, con conseguente scioglimento dei suoi organi politici.
Uno scioglimento che apre le porte a un “governo tecnico” cittadino, al quale si conferisce il compito di intervenire laddove la politica non riesce (o non vuole) arrivare
È allora plausibile sostenere che il Comune di Reggio Calabria sia stato sciolto anche a causa dell’incapacità di rimettere in sesto il bilancio. Insomma, uno scioglimento che apre le porte a un “governo tecnico” cittadino, al quale si conferisce il compito di intervenire laddove la politica non riesce (o non vuole) arrivare. Del resto, non sarebbe il primo caso in cui si “piega” la normativa al fine di colpire situazioni in cui la presenza della mafia è indubbia, ma il principale problema è costituito dalla cattiva amministrazione e da forme “usuali”, non mafiose, di malversazione di denaro pubblico. Per avere una prova di ciò si può anche rimanere nella stessa città e leggere cosa ha scritto, nella sua relazione conclusiva, la Commissione Straordinaria della Azienda Sanitaria Provinciale, sciolta per mafia nel 2008: “la causa dello scioglimento dell’Asp, e cioè le infiltrazioni di carattere mafioso, veniva a costituire disfunzione marginale e assumeva perciò incidenza secondaria rispetto alla voragine dell’assoluto sfacelo amministrativo, strutturale, finanziario e alla pressoché totale assenza di risorse umane e professionali in grado di cooperare, il tutto ovviamente terreno fertile per eventuali infiltrazioni”. Non è allora forse un caso che, appena insediato, uno dei tre commissari straordinari abbia dichiarato che l’obiettivo prioritario della Commissione è evitare il dissesto finanziario.
Queste ultime considerazioni, se approfondite, aprirebbero la questione – allo stesso tempo spinosa e cruciale – della presenza, del ruolo e della forza di élite locali non mafiose, ma comunque criminali e dedite al malaffare. Gruppi che per raggiungere le loro finalità possono “servirsi” dei mafiosi o anche essere in concorrenza con essi, spuntandola. Un discorso difficile e delicato da fare per via dell’imperante frame cognitivo nel quale è collocato il fenomeno mafioso che dipinge i gruppi criminali (e la ‘ndrangheta in particolare) come onnipotenti e onnipresenti, egemoni nei confronti di tutti gli altri soggetti con i quali essi entrano in relazione. Si tratta di una visione per così dire “ideologica” delle mafie, messa in discussione solo da alcuni attenti osservatori del fenomeno e dalle (poche) ricerche empiriche che, purtroppo, “scompaiono” nel rigoglioso mercato editoriale sull’argomento.
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