«È come se mi avessero chiesto all’improvviso di pilotare un aereo mentre era in volo senza manuale d’istruzione, dicendomi tanto tu lo sai fare perché sai guidare l’automobile». Così una maestra elementare di Roma racconta il suo impatto con la cosiddetta «didattica a distanza».
Dal 5 marzo si è inaugurato in tutta Italia un lungo tempo di non scuola e una straordinaria quantità di contraddizioni ha travolto il mondo dell’istruzione, a partire dal paradosso di una scuola della cui centralità tutti si sono accorti nel momento in cui ha cessato di esserci, come negli amori finiti male. E poiché le discriminazioni si sono aggravate grandemente per troppi bambini e ragazzi, la sensazione è d’essere precipitati dentro a uno di quei film di fantascienza in cui una moltiplicazione di laser e connessioni virtuali saettano tra muraglie impenetrabili di uno scenario medioevale dove prevale, inesorabile, la legge del più forte. Sfatata la leggenda dei presunti nativi digitali, dotati di straordinarie capacità tecnologiche solo perché rapidi nel maneggiare un cellulare o sfinirsi di videogiochi, bambine e bambini, fin dalle elementari, si sono trovati a compiere nuove operazioni pratiche e logiche, imparando con più o meno difficoltà a muoversi con destrezza tra diverse piattaforme, a dover sostenere alcuni insegnanti nel loro incerto muoversi in un mondo inesplorato, e quasi tutti hanno avuto la necessità di farsi aiutare dai genitori in compiti che dovevano essere realizzati in tempi e contesti del tutto nuovi. Nello scambio di conoscenze tra generazioni possiamo dire che ci sono stati rimescolamenti non scontatiNello scambio di conoscenze tra generazioni possiamo dire che ci sono stati rimescolamenti non scontati. Il gran tempo trascorso davanti a schermi di ogni dimensione conferma tuttavia che il digitale, al di là di superficiali apparenze, moltiplica le distanze tra chi ha buone connessioni e strumenti culturali per inoltrarsi in esplorazioni nelle vaste praterie del web, moltiplicando domande generative, e chi ne è solo un consumatore passivo, quando può.
Si è dunque aperto un profondo crepaccio che ha fatto compiere alla scuola un brusco salto indietro, che l’ha riportata a prima dell’introduzione della scuola media unica del 1962, a prima dell’ingresso nelle nostre aule di bambini e ragazzi con disabilità, resa possibile dalla legge 517 del 1977.
Ci sono ancora pochi dati dettagliati su ciò che è accaduto nelle diverse Regioni, ma sembra certo che oltre un quinto degli studenti delle scuole del primo ciclo (elementari e medie) non sia stato raggiunto da alcuna didattica a distanza e che più della metà per almeno due mesi abbia ricevuto solo qualche compito da svolgere in solitudine attraverso il registro elettronico, senza alcuna connessione diretta con compagni e insegnanti in grandi o piccoli gruppi. Ancora più grave è la condizione a cui sono stati costretti bambini e ragazzi con disabilità, che per tre quarti hanno vissuto la clausura forzata in totale sconnessione, moltiplicando sofferenze e privazioni che hanno messo spesso in gravi difficoltà le famiglie. Se la scuola spesso non riesce a includere tutti, le case sono ancora più ingiuste e discriminantiPiù che didattica a distanza, è bene configurare ciò che si è faticosamente cercato di mettere in piedi come «didattica dell’emergenza» per fugare ogni propensione a ritenerla proponibile in scenari futuri.
Se la scuola spesso non riesce a includere tutti, le case sono ancora più ingiuste e discriminanti. Nessuno sceglie in quale famiglia nascere o in quale quartiere o continente atterrare e, se quella condizione ci sta stretta, tutta la vita cerchiamo i modi perché quel destino non condizioni inesorabilmente la nostra destinazione lavorativa e sociale.
Compito di una scuola dovrebbe essere quello di permettere di andare oltre le mura domestiche, riconoscendo a tutti piena e uguale dignità, rimuovendo gli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana, come recita l’articolo 3 della Costituzione.
Piero Calamandrei parlava della scuola come «incubatrice di vocazioni ». L’incubatrice evoca l’estrema fragilità della vita al suo nascere, bisognosa com’è di protezione, cura e di una temperatura precisa capace di imitare il calore della madre: un artificio capace di riprodurre la natura laddove la natura s’è dimostrata carente. Ed è proprio così, perché la funzione e le difficili sfide che ingaggiamo nella scuola cercano faticosamente di creare un contesto capace di mettere tutte e tutti nella condizione di nascere alla vita con la maggiore libertà possibile, attenuando le ingiustizie di natura e società, che troppo spesso trasformano le differenze in discriminazione. Nello scambio di conoscenze tra generazioni possiamo dire che ci sono stati rimescolamenti non scontati.
Ma poiché non esiste apertura mentale che ci renda capaci di affrontare con cognizione di causa ostacoli e difficoltà, se non abbiamo le parole per dire ciò che sentiamo o intuiamo confusamente, al centro di ogni azione educativa non può che esserci l’affinamento della lingua, da forgiare in un continuo dialogo e scambio tra i ragazzi e tra le generazioni, alimentato da un necessario corpo a corpo con gli oggetti culturali, nei quali rispecchiarci per conoscere meglio il mondo, noi stessi e gli altri.
«Pare che abbiamo bisogno di rimbalzare su un’altra persona, di avere qualcosa che rifletta indietro quello che diciamo prima che possa diventare comprensibile. C’è bisogno a volte di essere presentati a noi stessi», afferma Wilfred Bion. E Marianna, in quinta elementare, conclusa una lunga ricerca attorno a «La scuola di Atene» di Raffaello realizzata con il disegno, il teatro e una corrispondenza tra i ragazzi della classe e i filosofi e scienziati lì rappresentati, al termine di una lunga discussione ha detto: «Raffaello ha fatto veri i filosofi per metà, noi per l’altra metà». Questa per me è la più nitida definizione dei nostri compiti perché la cultura è relazione, solo relazione. Un romanzo, una pittura o un teorema, se io non lo faccio mio, se non riesco a «farlo vero» per la metà che mi spetta, resta un oggetto estraneo, inerte, incapace di generare stupore, curiosità e conoscenza. Questa la prima e più profonda ragione per cui è improponibile una scuola a distanza.
Nei tre mesi di non scuola, tuttavia, sono accaduti spostamenti e slittamenti che sarebbe sbagliato sottovalutareNei tre mesi di non scuola, tuttavia, sono accaduti spostamenti e slittamenti che sarebbe sbagliato sottovalutare.
Le famiglie, tranne quelle escluse perché totalmente disconnesse, si sono ritrovate d’un tratto la scuola in casa. E vedere comparire dagli schermi di computer e cellulari i volti delle insegnanti e degli insegnanti nelle più diverse ore del giorno ha prodotto effetti collaterali interessanti e contraddittori. Alcuni genitori si sono resi conto per la prima volta di quanto sia complessa l’azione didattica, di quanto sia ardua la strada per affinare l’arte dello scrivere e la capacità di capire leggendo, l’abilità del costruire connessioni e relazioni efficaci tra i diversi apprendimenti, intrecciando il memorizzare al ragionare. Quanto impegno e creatività richieda il motivare allo sporgersi verso l’ignoto con attenzione e interesse, suscitando apertura e passione nei bambini verso nuove conoscenze, ancor di più se a distanza.
Si sono accorti quanto il corpo, i modi e la postura di chi insegna Se la scuola spesso non riesce a includere tutti, le case sono ancora più ingiuste e discriminante influenzi potentemente non solo la relazione educativa, ma la capacità di apprendere, che è fatica che deve essere accompagnata da coerenza e altrettanto sforzo, perché solo un adulto in ricerca può stimolare il desiderio di ricerca.
Il trovarsi a dover stare accanto ai propri figli per ore, accompagnandoli nello sforzo dell’apprendere, ha aperto a un nuovo sguardo sulla scuola. In alcuni casi sono sorte critiche più o meno giustificate all’operare dei docenti, in altri c’è stato una sorta di accerchiamento del bambino, incastrato tra l’insegnante che lo guardava dallo schermo e un genitore che lo controllava alle spalle, in altri ancora si è parzialmente attenuata l’onda lunga di estraneità verso la scuola, presente da decenni nella nostra società. Ci aspetta una crisi economica dalle conseguenze imponderabili e sappiamo bene quanto le crisi possano provocare trasformazioni profonde, ma il modo in cui se ne esce dipende dalle forze in campo e dalle idee che sono in circolazione. Dalle crisi degli anni Trenta sortì il New Deal, oggi tanto rievocato, ma anche il nazismo. Ecco dunque un compito ineludibile per la cultura e per la scuola: mettere in circolo idee e comportamenti conseguenti, all’altezza delle sfide che abbiamo di fronte.
Nora Giacobini, che nel primo dopoguerra diede vita con altri in Italia al Movimento di Cooperazione Educativa, sosteneva che non si può educare senza una grande visione e credo che mai come oggi sia necessario non lasciarci impigrire da eccessi di realismo che ci imprigionano nel solo recinto del presente, avvilendo ogni lungimiranza e radicalità.
L’anno scolastico che si è drammaticamente concluso a giugno era iniziato con le grandi mobilitazioni studentesche – era il 27 settembre– contro il surriscaldamento globale, che avevano coinvolto centinaia di migliaia di giovani in tutta Italia e nel mondo.
La sfida che lanciò Greta Thunberg due estati fa era di una radicalità estrema. «Che senso ha andare a scuola – sosteneva con quel suo sguardo deciso e corrucciato che ha conquistato milioni di giovani in tutto il pianeta – se alle conoscenze che acquisiamo non dà alcun valore chi ha il potere di scegliere?».
Greta, in qualche modo, ci ha costretto a ritornare all’origine dell’atto educativo, quando nelle prime scuole filosofiche sorte in Grecia e nel Mediterraneo non si trattava solo di ricercare attorno a contenuti, Nei tre mesi di non scuola, tuttavia, sono accaduti spostamenti e slittamenti che sarebbe sbagliato sottovalutare ma di trasformare se stessi in un costante esercizio che metteva in causa il proprio modo di vivere.
«Capire è cambiare. Se non cambiamo vuol dire che non abbiamo capito», ci stanno gridando i giovani più consapevoli.
Il paradosso della pandemia, che per la prima volta nella storia ha fermato per un tempo non breve l’intero pianeta, sta nell’aver reso evidente di quanta scienza e conoscenza abbiamo bisogno e, al tempo stesso, delle enormi difficoltà che abbiamo nel cambiare.
Sappiamo quanto le parole siano importanti e allora cominciamo a fare i conti con le metafore in circolazione. Si è parlato continuamente della guerra, ma contrastare una pandemia e combattere una guerra sono due azioni che non hanno nulla a che vedere perché qualsiasi guerra si fonda sull’assassinio e la soppressione del nemico. Il contrasto a un virus letale, al contrario, può contare solo sulla cura, la ricerca scientifica, comportamenti coerenti che fermino il contagio e un ritrovato sentirsi comunità nel piccolo e nel grande.
Per cominciare a immaginare una società capace di contrastare le malattie e le catastrofi che ci attendono non abbiamo bisogno di investire in armi e forze armate, allora, ma di tutto ciò che dell’esercito non è esercito: infermieri, medici e genieri capaci di attrezzare velocemente un ospedale da campo.
In modo improvvido il «distanziamento fisico», necessario a limitare il contagio, si è cominciato a chiamare «distanziamento sociale», allungando un’ombra inquietante sulle relazioni reciproche. Ma per uscire dalla crisi e ripensare la scuola dobbiamo compiere il processo inverso comprendendo quanto sia necessario non smettere mai di lavorare a un «riavvicinamento sociale», come con fatica e convinzione tanti insegnanti hanno cercato di fare nella scuola di base riguardo all’inserimento dei figli di famiglie immigrate. Negli ultimi trent’anni, pur tra luci e ombre, la scuola è stata il principale luogo pubblico capace di accoglienza, e non è certo un caso che tante e tanti docenti si siano impegnati a favore dello Ius culturae, perché l’educare si fonda sulla capacità di dare piena cittadinanza a tutti.
Di fronte a nuove discriminazioni cresciute in questi tre mesi non possiamo che ripartire dalla scuola e da un rinnovato ruolo dell’arte e della cultura nella cura dei territori, a partire dai più degradati e isolati.
Stiamo ampliando a dismisura un debito pubblico che peserà per decenni sulle spalle dei nostri figli e dei nostri nipoti. Se vogliamo scommettere sul futuro e risarcire in qualche modo le giovani generazioni dobbiamo investire come mai prima in istruzione, formazione e ricerca e inaugurare un decennio centrato sulla cura. Cura della qualità delle relazioni reciproche, che deve necessariamente partire dalla cura delle città e del territorio e deve contare dunque sulla collaborazione attiva delle più diverse professioni.
È intollerabile mantenere il numero chiuso a Medicina e ostacolare l’accesso alle specializzazioni dopo essere stati costretti a ricevere aiuto da medici provenienti da diversi continenti. Abbiamo la percentuale di laureati tra le più basse in Europa e ora non possiamo dimenticare che durante l’ultima crisi economica furono tagliati più di 8 miliardi alla scuola di base dall’allora ministra Gelmini.
Nel 2021 festeggeremo i cinquant’anni del tempo pieno nelle scuole del primo ciclo. L’aumento del tempo scuola, previsto con l’introduzione della media unica fin dal 1962, fu attuato con dieci anni di ritardo e ancora oggi riguarda solo il 32% delle scuole, con una distribuzione geografica che penalizza totalmente il Sud.
Quella riforma fu anticipata da interessanti sperimentazioni attuate nella città di Torino, nei quartieri dove all’epoca alloggiavano le famiglie immigrate dal Mezzogiorno. I comuni, come in altre occasioni, fecero da battistrada a un’innovazione necessaria, inaugurando un modello di scuola attiva all’avanguardia in Europa.
Erano anni in cui la scuola e l’educare erano al centro dell’attenzione pubblica, certo; ma se vogliamo affrontare i nuovi rivolgimenti che si annunciano, a partire da quelli che il surriscaldamento globale sta provocando in diverse latitudini e già ora costringe milioni di esseri umani a migrazioni dovute a siccità e inondazioni, non possiamo non rimettere al centro la questione educativa.
Ciò che si è cominciato a sperimentare in alcuni quartieri e paesi questa primavera, quando i docenti sono stati chiamati a fornire i device necessari agli studenti che non li avevano, ha aperto un piccolo varco che ha ampliato le numerose collaborazioni fattive messe in atto tra operatori sociali e scuola in numerosi progetti di contrasto alla dispersione scolastica. Quando le discriminazioni arrivano a scavare abissi che relegano oltre due milioni di giovani nel limbo del non studio e non lavoro, la scuola da sola non ce la può fare. Eppure, nonostante tutto, di fronte alle necessità e urgenze emerse in questi mesi, si sono sviluppate collaborazioni inedite tra insegnanti, famiglie e operatori del terzo settore maggiormente legati al territorio, in alcuni cosi sostenute da comuni, municipi e circoscrizioni.
È emersa con chiarezza l’inevitabile ruolo sociale che assume il mestiere dell’insegnare nella scuola della CostituzioneL’apertura di questi spiragli ha messo in evidenza l’inevitabile ruolo. È emersa con chiarezza l’inevitabile ruolo sociale che assume il mestiere dell’insegnare nella scuola della Costituzione. Nella necessità di immaginare nuovi spazi per l’educare in questo tempo di emergenza, si possono concretizzare e moltiplicare fin d’ora alleanze capaci di individuare luoghi e costruire nuovi contesti di diffusione e costruzione culturale, offrendo uguali opportunità a tutte le scuole del Paese di ampliare il tempo di una offerta educativa necessariamente molteplice e aperta.
Paradossalmente, nel momento in cui si ipotizza di ridurre le ore a 40 minuti per sdoppiare le classi mantenendo lo stesso numero di docenti, dovremmo avere il coraggio di invertire la tendenza e pretendere investimenti massicci in cultura perché i modi in cui affronteremo l’emergenza lasceranno il segno negli scenari futuri.
Ma per lavorare a una crescita della qualità culturale dei territori non basta la convinzione di insegnanti e operatori sociali. C’è bisogno di una consapevolezza ben più ampia, che sappia andare oltre la retorica condensata nello slogan pigro e consolatorio dell’«andrà tutto bene». Ci vogliono salde persuasioni e un impegno straordinario da mettere in campo perché dobbiamo arrivare a pretendere che almeno il 20% delle risorse del Recovery fund siano destinate a istruzione, università e ricerca, impegnandoci fin d’ora a una profonda revisione e a un miglioramento sostanziale della formazione dei docenti in ingresso e in servizio, all’altezza delle sfide che ci attendono.
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