«Ho scherzato su tutto: questo posso dirlo con tranquilla coscienza, facendo un bilancio […] di quello che ho scritto». Così si legge in Questo non è un racconto, raccolta degli scritti inediti o dispersi sul cinema e per il cinema di Leonardo Sciascia (a cura di Paolo Squillacioti, Adelphi, pp. 170, € 13,00). È il 1976. Sciascia ha appena visto il film che Elio Petri ha tratto da Todo modo, e torna con la memoria a una ventina d’anni prima, quando un critico di sinistra – così lo definisce – aveva chiuso con un perentorio «con certe cose non si scherza» la recensione del suo Gli zii di Sicilia, riferendosi in particolare al racconto La morte di Stalin.
Dalle Parrocchie di Regalpetra, spiega, alla Scomparsa di Majorana, ho sempre scherzato su tutte le cose su cui «la maggioranza degli italiani non se la sente»: sul partito comunista, sulla chiesa cattolica, sulla mafia, sugli scienziati, sul Risorgimento, sulla famiglia. «E si intende che alla parola scherzare confido un significato di categoria morale ed estetica, un senso liberatorio. Bisogna scherzare sulle cose che si temono o si odiano o si amano». Dicendo cose terribilmente serie, continua, due anni fa – il libro è del 1974 – io ho scherzato, e invece Petri non scherza.
Gli "occhi ridenti e fuggitivi" della Silvia di Leopardi ognuno li ricrea a suo modo, quelli di Bette Davis e di Michèle Morgan "si inscrivono dentro lo schermo con la perentorietà della loro presenza inconfutabile: sono lì, sono così e non altrimenti"
Si può condividere o non condividere questa quasi-stroncatura di un film a suo tempo osannato – noi la condividiamo –, ma è difficile non condividere il senso profondo dello scherzo morale ed estetico così come lo ha inteso e praticato il grande scrittore di Racalmuto. Narratori o registi o critici, è bene «tenere a distanza» almeno un po’ l’oggetto del proprio timore e del proprio odio, e in primo luogo l’oggetto del proprio amore. Da questa distanza metodologica dipende non solo lo stile, ma anche l’intelligenza di un’opera e della sua lettura. Lo scherzare ha poi diverse gradazioni, fino a perdere il proprio oggetto. E quando si tratti di un oggetto d’amore, può capitare che emergano dolore e rimpianto.
Così pare sia, o meglio così pare diventi lungo gli anni il rapporto di Sciascia con il cinema, addolorato e percorso dal rimpianto. Come testimonia il suo amico e quasi coetaneo Gesualdo Bufalino – lo si legge in un passaggio della raccolta L’enfant du paradis. Cinefilie (edizioni Salarchi immagini, 1996) –, si può dirlo d’amore, quel rapporto, «ma vigilato e sottoposto ai freni dell’intelletto». Gli «occhi ridenti e fuggitivi» della Silvia di Leopardi ognuno li ricrea a suo modo, quelli di Bette Davis e di Michèle Morgan «si inscrivono dentro lo schermo con la perentorietà della loro presenza inconfutabile: sono lì, sono così e non altrimenti».
Noi pensiamo che gli occhi che vediamo sullo schermo non siano «di» Bette Davis o Michelle Morgan, «di» Michelle Pfeiffer o Scarlett Johansson, ma valgano come suggerimenti di luce e ombra offerti dal cinema ai nostri, che li ricreano a loro modo – al modo di ogni spettatore –, come quelli di Silvia. Ma così la pensava Bufalino, e così Bufalino sostiene la pensasse Sciascia.
In ogni caso, ancora come ci informa Bufalino, il cinema ebbe un peso determinante nella sua formazione. Lo sbloccarono, lui ragazzo, «dalla triplice clausura: della dittatura, dell’isola, della provincia». A conferma, basta leggere un passaggio intenso di Questo non è un racconto. Si tratta di una pagina dedicata nel 1961 a Gary Cooper, morto il 13 maggio di quell’anno. «[…] questo eroe della grande e libera America noi per un momento lo abbiamo visto sul nostro reale orizzonte, sull’orizzonte della nostra storia, sulla frontiera che separava il fascismo dalla civiltà. […] il sergente della divisione Texas che, in un pomeriggio dell’estate 1943, entrava con la sua pattuglia in un paese della Sicilia, per un momento realizzò il nostro mito […] [confondendosi con] l’immagine di Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco, l’uomo che avanza a ristabilire il diritto, la legge, la dignità e la libertà degli uomini».
Mito appunto fu per il giovanissimo Sciascia il cinema, in particolare quello americano. È difficile immaginarlo per chi non abbia vissuto quegli anni, scrive lui stesso in un brano raccolto in Ore di Spagna (Adelphi, 1988). Ce lo ricorda Squillacioti nella sua bella nota a Questo non è un racconto. «Era, si può dire, tutto. Vi si intravedevano i libri che non si potevano leggere, le idee che non potevano circolare, i sentimenti che non si potevano avere».
Memoria sono le centinaia e centinaia di ore passate nel buio di una sala. Memoria sono gli amatissimi Sous le toits de Paris di René Clair, La traversée de Paris di Claude Autant-Lara, Calle Mayor di Juan Antonio Bardem
A partire dal cinema muto e fin verso il 1960, ricorda Sciascia nel 1987, «di films ne ho visti tanti: spesso due in una sola giornata». Ma ora il cinema lo annoia, a parte i film di Fellini (per quanto consideri «fallito» La dolce vita). Per lui Gary Cooper è solo più memoria. Memoria sono le centinaia e centinaia di ore passate nel buio di una sala. Memoria sono gli amatissimi Sous le toits de Paris di René Clair, La traversée de Paris di Claude Autant-Lara, Calle Mayor di Juan Antonio Bardem.
Ci sono pagine dense di intelligenza cinematografica, in Questo non è un racconto. C’è un ritratto commosso di Buster Keaton, con la sua morte che ha qualcosa di irreale, «come fosse una di quelle apparizioni che, nelle sue comiche, sospendeva il tempo a interludio di una frenetica apparizione». E c’è un elogio profondo di Chaplin, non tanto di quello considerato più grande, delle cui «trascendenti interpretazioni» hanno scritto «i metafisici del cinema», ma dello Charlot delle comiche finali: «Charlot era […] il giusto del comico», che sempre ha in sé, quando è grande, «un che di cattivo, di ingiusto, di spietato».
Eppure, dal 1960 Sciascia non va quasi più al cinema, non trova più autori cui affidare il proprio amore di spettatore. O forse non sa più essere spettatore. Così almeno pare a noi, leggendolo. È come se lo scherzo, la presa di distanza pur necessaria da quello che si ama – soprattutto da quello che si ama –, avesse messo a tacere le ragioni stesse dell’amore. Sono molte le pagine di Questo non è un racconto che leggiamo con dolore, e con il disappunto di chi al cinema continua ad andare, anche due volte al giorno. In ognuna di quelle pagine vorremmo interrompere la sua scrittura, interloquire, chiedergliene conto. Proprio come fa il personaggio che svolge la funzione di lettore nella novella di Denis Diderot da cui prende titolo questa raccolta. Scherziamo, ovviamente. Scherziamo come Sciascia ha fatto, e come ci ha insegnato.
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