Qualche anno addietro, in un seminario internazionale che si svolgeva a Napoli, Enrico Pugliese disegnò su una lavagna una mappa della struttura socio-spaziale della città che distingueva quattro differenti aree: la “città di Ford”, ossia le aree a Est e a Ovest di Napoli, sede di grandi fabbriche smantellate come l’Italisider di Bagnoli, chiusa nel 1993; la periferia a Nord Est di Napoli, con alcuni caratteri comuni all’iperghetto descritto da Wilson, in primo luogo la de-professionalizzazione dei giovani e l’isolamento sociale derivante dall’aridità del contesto; la “Città di Un posto al sole”, ossia i quartieri residenziali collinari dove è ambientata la nota serie televisiva, nei quali la prossimità abitativa nei palazzi nobiliari crea forme di interazione spontanea che tuttavia non eliminano le diversità di classe sociale. Vi era, infine, la “città di Allum”, il centro storico caratterizzato da una microeconomia urbana di sussistenza, sostanzialmente chiusa all’esterno, e dall’assenza di conflittualità sociale, imbrigliata in complesse reti clientelari.
Il libro di Giovanni Laino (Quartieri Spagnoli. Note da quaranta anni di lavoro dell’Associazione) offre l’occasione per domandarsi che cosa ne è stato dei Ciccillo, le donna Luisella e i don Salvatore descritti da Percy Allum nel suo noto Potere e società a Napoli nel dopoguerra, pubblicato a metà degli anni Settanta.
I Quartieri Spagnoli, con la loro forma squadrata a reticolo, furono creati nel Cinquecento dal Viceré Don Pedro di Toledo per acquartierarvi le sue truppe con i cavalli (da qui le strette case con affaccio diretto sulle stradine) laddove prima era aperta campagna (e di queste origini raccontano i nomi dei vicoli: vico Tre Regine, Vico Lungo Gelso). La caratteristica del quartiere è una sorta di mixité spontanea risultato della coabitazione nello spazio ristretto dei vicoli di ceti estremamente eterogenei: le famiglie di working poor che Laino definisce “eduardiane”, contrapponendole a quelle “vivianiane” del proletariato marginale che svolgono attività al limite della legalità; il ceto medio costituito per lo più da dipendenti pubblici, meno radicati nel quartiere; gli immigrati, regolari e privi di permesso di soggiorno, che in alcuni casi mostrano carriere abitative ascendenti, con il passaggio dai bassi ai piani superiori o mediante l’acquisto dei bassi stessi; il ceto intellettuale dei borghesi proprietari che, grazie al degrado del patrimonio edilizio, sono riusciti a comprare a prezzi convenienti e ristrutturare residenze ampie, centrali e panoramiche. Una coesistenza di pratiche e stili di vita quotidiani ben sintetizzata da un altro saggio di Laino che ricostruisce la storia di un palazzo dei Quartieri Spagnoli attraverso i suoi abitanti temporanei o stanziali da generazioni.
In una posizione di relativo dominio vi sono poi le famiglie di esponenti della criminalità organizzata separate da un confine, a volte permeabile, da quelle coinvolte a vario titolo nei circuiti della microcriminalità. Queste ultime danno vita a una miriade di pratiche legate a forme di economia illegale (spaccio minuto, contrabbando, sfruttamento della prostituzione, usura, truffe ma anche lavoro nero di carattere artigianale), presenza che ha spesso comportato la rappresentazione dei Quartieri Spagnoli – soprattutto nella parte alta, un reticolato di vicoli che si inerpica nella collina – come luoghi pericolosi, abitati da gente pericolosa. Vi è infine una piccola comunità, sempre meno numerosa, benché tradizionalmente ben integrata nel quartiere, di transessuali, appartenenti per lo più al proletariato precario, della quale fanno parte i “femminielli” che a Natale sono protagonisti di tombolate durante le quali la successione dei numeri e il loro significato diventano pretesto per una narrazione ricca di doppi sensi. Questa tradizione, un tempo spontanea, viene ora segnalata nelle guide turistiche ed è stata notevolmente addomesticata a questo scopo. Il riuso simbolico di tradizioni popolari a scopi turistici, quasi una sorta di marketing della povertà, è un ulteriore motivo per guardare ai Quartieri Spagnoli come a un esempio interessante delle trasformazioni in atto nella Napoli contemporanea.
In mancanza di investimenti pubblici o privati orientati da un preciso progetto di rigenerazione urbana e sociale, nei Quartieri Spagnoli si assiste infatti alla manifestazione di forme di autorganizzazione dai caratteri decisamente originali, che ne sta trasformando tanto la morfologia quanto la rappresentazione. Laino osserva che “nella zona, come forse in tutta la città, non è in corso un processo di gentrificazione, ma una dinamica più lenta e articolata che – cosa abbastanza unica in Europa – vede ancora un antico straordinario radicamento dei ceti e delle attività popolari nei quartieri del centro urbano”. Tuttavia questa sorta di “gentrificazione dal basso” o “gentrificazione lenta” oggi tende ad agganciarsi all’improvvisa accelerazione locale dell’industria del turismo e dell’accoglienza diffusa. Un fenomeno caratterizzato dall’uso spregiudicato, in senso commerciale, di elementi del folklore stereotipato di Napoli («una città prigioniera dei propri stereotipi», come ha scritto per il Mulino Marcello Anselmo)
Anche se la lettura del libro di Laino fa pensare a una sorta di Spoon River dei Quartieri Spagnoli (dove sono finiti i gruppi di artigiani o lavoratori precari che di pomeriggio giocavano a carte fuori delle botteghe? E le prostitute e i femminielli? E le donne in pantofole e vestaglia che percepivano il vicolo come un prolungamento del basso?), è in corso in questa parte di Napoli un proliferare di reazioni e pratiche sociali che costituiscono un interessante oggetto di ricerca e narrazione proprio per la loro specificità e lontananza dai paradigmi canonici di analisi delle trasformazioni urbane. Non è comunque solo la struttura urbanistica dei Quartieri Spagnoli, con i vicoli, i mercati, le botteghe artigiane a livello di strada, dove le persone possono ritrovarsi ogni giorno, la compresenza di fabbricati di taglie e valori architettonici diversi ad aver favorito pratiche di innovazione e quel particolare tipo di apprendimento istituzionale in base al quale “i progetti sollecitano le politiche” e non viceversa. C’è qualcosa di più come ben spiega Giovanni Laino, tra i fondatori, insieme ad Anna e Lina Stanco, nel 1986, dell’Associazione Quartieri Spagnoli (ma il suo nucleo originario, il “basso di Anna”, era presente già da diversi anni):
L’esperienza fatta ai Quartieri Spagnoli – egli scrive – ha insegnato che se la propensione all’invenzione e al sogno non va mai mortificata, il radicamento (la “gettatezza” in un luogo), l’attenzione alla fattibilità complessiva, il tener conto delle reali propensioni delle persone, sono dimensioni imprescindibili per azioni di sviluppo che intendano essere realmente pertinenti e promettenti per un territorio.
Se a tutt’oggi nei quartieri più poveri di Napoli non si sono manifestati effetti di desertificazione e disgregazione sociale della stessa portata di quelli di quartieri simili di città italiane e europee è anche grazie al fatto che negli interstizi tra il retrenchment del Welfare locale e il collasso delle reti familiari depauperate dalla emigrazione dei soggetti più provveduti e dotati di risorse sono spuntate, come fiori nel deserto, interessanti iniziative di innovazione sociale, di specializzazione produttiva e recupero di tradizioni artigianali, pratiche di solidarietà comunitarie e esperienze artistiche. Ci sarebbe di che rallegrarsi se non fosse che, al pari delle piante grasse che muoiono per lo sforzo della fioritura, anche queste energie rischiano di implodere se non opportunamente inserite in un contesto sociale ed economico diverso da quello attuale e non sostenute in modo adeguato dalle istituzioni pubbliche.
Riproduzione riservata