Uno spettro si aggira da qualche anno nelle case di molte famiglie italiane con figli piccoli: l’educazione di genere impartita a scuola sin dai primi anni di infanzia, anche definita, con finalità polemiche e contestative, con il sintagma “ideologia del gender”. Tale definizione, nata originariamente in seno alla chiesa cattolica, è stata successivamente utilizzata come dispositivo di mobilitazione da parte di realtà associative e partitiche sostenitrici di una visione naturale della famiglia e dell’ordine sessuale.
Un vero e proprio panico morale agita pertanto il dibattito mediatico e politico, e investe anche le micro relazioni quotidiane all’interno delle famiglie e delle istituzioni educative che si occupano di infanzia, non appena il tema di una formazione orientata al genere e alla non discriminazione – dalla semplice lettura di un albo illustrato sull’argomento a una più strutturata attività di sensibilizzazione al rispetto delle differenze o di contrasto agli stereotipi di genere e all’omofobia – entra “in contatto” con i bambini e le bambine. Anche recentemente si è riaccesa la polemica mai sopita sul “giusto” rapporto tra scuola, famiglia e educazione di genere, che ha tutta l’aria di diventare uno dei nuovi fronti di scontro politico dei prossimi anni. Già durante il periodo elettorale, d’altronde, si è potuto osservare quanto la questione della protezione dei bambini sia stata strumentalmente utilizzata da due schieramenti politici per contestare l’obbligatorietà dei vaccini, e come ugualmente lo sia stata anche la stessa educazione di genere a partire da quando, nel 2014, è entrata nelle aule parlamentari con il ddl 1680 contenente la proposta di “introduzione dell’educazione di genere e della prospettiva di genere nelle attività e nei materiali didattici delle scuole del sistema nazionale di istruzione e nelle università”.
Diversi avvenimenti rivelano quanto l’infanzia si stia configurando sempre più come una questione morale, che non ammette neutralismi bensì posizionamenti antitetici tra differenti culture adulte in conflitto aperto su chi detenga il sapere più legittimo e legittimato sull’infanzia e sia maggiormente in grado di proteggerla ed educarla. Pur nelle differenze interne, lo scontro più evidente è quello tra genitori e educatori, tra l’istituzione familiare e quella scolastica (dimostrato anche dai recenti episodi di violenza non più solo verbale ma fisica verso il corpo “del” docente). Se, da un lato, la famiglia viene rappresentata come principale depositaria dell’educazione infantile, dall’altro – anche se timidamente, e con più forza da parte delle varie associazioni che difendono i diritti civili – si rivendica il ruolo della scuola come spazio neutro e laico su cui porre le basi fondative per una nuova società democratica e aperta. L’infanzia si trova cioè parallelamente al centro di istanze di sacralizzazione, che la riportano quindi nell’alveo della famiglia, e di una nuova politicizzazione nella sfera pubblica.
A non mutare, però, in entrambi i posizionamenti è una visione essenzialista dell’infanzia come “età dell’innocenza” (e dell’incapacità), con il permanere di una visione rousseiana del bambino puro, angelicato e in uno stato di natura. Ciò che quindi più di tutto genera turbamento in tali iniziative orientate al genere è la sfida a un ordine naturale in cui i bambini, ancor prima della famiglia, sono ricondotti e attraverso il quale sono regolati socialmente.
Tale spiegazione non basterebbe però da sola a giustificare la partecipazione emotiva che scatena se non venisse collegata alla trasformazione dello statuto emozionale riconosciuto ai bambini nella nostra società, passati dall’essere forza lavoro produttiva a “beni dal valore affettivo” inestimabile, e alla conseguente emersione di una «nuova cultura della genitorialità» che lega il valore morale del genitore a uno sviluppo riuscito del proprio figlio e si manifesta attraverso una sua presenza costante in tutti gli ambiti della vita filiale un tempo delegati alle istituzioni scolastico-sanitarie dello Stato.
Per uscire da un discorso unicamente moralista e emozionale bisognerebbe forse ripartire da due aspetti colpevolmente assenti: una seria analisi delle paure genitoriali, cui si dovrebbe accompagnare una messa in luce delle prospettive e dei desideri dei bambini. Per quanto riguarda le reazioni dei genitori è forse giunto il momento di uscire dall'indignazione e di provare ad ascoltare le loro paure. “Spero francamente che mia figlia non abbia riportato un trauma” ha dichiarato una mamma di fronte alla maglietta colorata e alle guance dipinte dei colori dell’arcobaleno della sua bimba all’uscita di scuola. Parole che vanno comprese, ancora prima che disapprovate, perché ci offrono uno spaccato dei saperi (o non saperi), dei valori, dei desideri e delle paure adulte su cui si costruiscono, a livello nazionale, le cornici simboliche, spaziali e materiali della vita dei bambini e delle bambine. Allontanarle e stigmatizzarle sarebbe l'ennesimo passo falso di chi invece dovrebbe responsabilmente svolgere un ruolo interpretativo dei fenomeni sociali e uno di intervento politico.
Rispetto al secondo aspetto, collegato al primo, colpisce in questo susseguirsi di proclami e azioni fatti “per il bene dei bambini” il ruolo passivo nel quale i bambini vengono relegati, meri oggetti di sguardo e intervento adulto. In tutto questo vociare pubblico, non è riportata la loro voce e il loro vissuto nell’educazione. L’educazione risulta ancora qualcosa che viene fatta ai bambini e alle bambine piuttosto che essere letta come un processo relazionale a cui, attraverso la loro esperienza biografica e situata, dare un proprio senso e un significato. Tante ricerche a livello internazionale, e le loro ricadute sulle politiche di alcuni Paesi, rivelano infatti che bambini e bambine sono attori in relazione e possono – pur a partire da posizione subalterne – attivamente e collettivamente invertire, trasformare, risignificare il contenuto valoriale e normativo delle pratiche educative.
Quando il genere bussa alla porta della scuola e di casa facciamo aprire la porta ai bambini. Correremo il solo rischio di scoprire visione inedite dell’infanzia e del ruolo che i più piccoli possono ricoprire nella società e, forse, questo ci aiuterà ad avere meno paure.
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