Per il dio delle metafore i tempi in cui viviamo sono un’occasione fortunata. Sono le metafore che aiutano a descrivere e capire qualcosa dell’ingarbugliata e sfuggente matassa del potere contemporaneo. Quale la più appropriata? Ci prova stavolta Maria Rosaria Ferrarese con Poteri nuovi (Il Mulino, 2022), avanzando l’immaginifica metafora del dress code.

Il potere ha dismesso gli abiti scuri, i doppio petto, le cravatte del government, per indossare le leggiadre tuniche della governance. La modernità era iniziata con lo Stato, ossia il monopolio legittimo della violenza, che aveva sottomesso i poteri privati. Cui fu tuttavia riconosciuto ben presto un proprio spazio di autogoverno: il mercato. Le forme di contenimento del potere statale sono state tante: anche il diritto e il regime rappresentativo, poi democratico. Ma lo Stato era rimasto lo Stato. Ferrarese indaga la stagione più recente: quanto Stato è rimasto dopo che lo Stato si è abbassato al rango dei poteri privati e, anche ufficialmente, negozia con essi.

Sottomessi gli Stati alle logiche dei protagonisti del capitalismo finanziario e delle piattaforme, ne è risultata una metamorfosi straordinaria delle pratiche di potere, che si approssimano all’influenza e si allontanano dall’autorità. Il potere rinuncia – in parte – alle sue vesti secolari, diventa soft, informale, indiretto. Il diritto è stato deformato, per adattarlo alla bisogna: adoperato non per comandare, ma per incitare, incentivare, premiare, dissuadere. È anche invisibile, anonimo, coerente con il mercato, che notoriamente si legittima evitando di chiamare potere il potere, per chiamarlo piuttosto scambio, entro una trama che spontaneamente e armonicamente si ricompone. In effetti, le modalità di esercizio del potere si sono ravvicinate tra loro: i poteri pubblici funzionano sempre più come quelli privati. L’ultima operazione di rivestimento è la governance, nelle cui pratiche negoziali, ufficialmente condotte alla pari tra autorità politiche, imprese e società civile, potere politico e potere economico si disciolgono e si legittimano vicendevolmente. L’innovazione consiste nel degradare l’interesse pubblico a un insieme d’interessi privati tra gli altri, frazionato tra amministrazioni centrali, agenzie, amministrazioni locali e spogliato dei panni della generalità e terzietà.

Una metamorfosi straordinaria delle pratiche di potere, che si approssimano all’influenza e si allontanano dall’autorità: il potere rinuncia – in parte – alle sue vesti secolari, diventa soft, informale, indiretto

Paradossalmente, nota Ferrarese, un inatteso ritorno di fiamma il potere politico lo trova nei processi di personalizzazione, agevolati dai media . Anche in tal caso, il percorso è a ritroso. Il superamento del potere personale era uno dei tratti della modernità. Tanto da ossessionare Max Weber. Sembra sia ritornato, benché in una dimensione più spettacolare che efficace: quanto i leader personali sono in grado di opporre il potere politico ai poteri economici?

Non è stata un’evoluzione naturale. Il costituzionalismo liberale era figlio dei conflitti tra classi superiori. Altri, aspri e drammatici conflitti avevano trovato conciliazione nel costituzionalismo democratico, figlio dell’ingresso sulla scena politica delle classi medie e inferiori e, in special modo, del movimento operaio organizzato. Ebbene, nuovi conflitti, a prima vista non violenti, hanno devastato quest’ultimo sistema di regole. La globalizzazione è un processo di lunghissima data, ma la sua accelerazione ha dato fiato al capitalismo euroamericano orfano della grande impresa manifatturiera. La libera circolazione di capitali, merci, servizi, conoscenze, ha a sua volta incoraggiato la comparsa di nuovi poteri, privati e pubblici, che fanno concorrenza su scala planetaria agli Stati e alle autorità sovranazionali istituite da questi ultimi: oltre settantamila sarebbero, secondo Ferrarese, le nuove istituzioni globali.

La rivoluzione digitale, l’intelligenza artificiale, gli algoritmi hanno offerto nuove opportunità ai grandi potentati privati. Il libro dedica loro ampio spazio. Consentono di farsi beffa della trasparenza, che era una grande promessa democratica, invero mai mantenuta, ma che, in coppia con l’accountability, è stata rinnovata per legittimare la governance. Con qualche seria sofferenza per la democrazia. Ferrarese distingue regimi democratici e regimi autoritari e si schiera senza equivoci coi primi. Difficile dissentire, ma forse è più utile pensare gli uni e gli altri non come universi incompatibili, ma come poli di un continuum . Anche gli autoritarismi, d’altronde, hanno rivisto il loro dress code. Tramontata l’utopia socialista, chi nega più spazio al mercato? Mentre per lo più si sono riconvertiti alle procedure elettorali, perfino competitive, benché non troppo attendibili.

Per contro, i regimi democratici, mentre da un lato assumono le leggiadre vesti della governance, dall’altro si rivelano sempre più sbrigativi nell’esercizio dell’azione di governo. A sua volta, il nucleo coercitivo dello Stato si rianima nel contrasto alla devianza, nella repressione della protesta, nell’opposizione ai migranti.

I regimi democratici, mentre da un lato assumono le leggiadre vesti della governance, dall’altro si rivelano sempre più sbrigativi nell’esercizio dell’azione di governo. A sua volta, il nucleo coercitivo dello Stato si rianima nel contrasto alla devianza, nella repressione della protesta, nell’opposizione ai migranti

Le interdipendenze economiche planetarie si sono intanto infittite, le economie si sono compenetrate e quelle occidentali sono state imbrigliate da catene di valore lunghissime e dalle convenienze dei capitali investiti dai Paesi produttori di materie prime e dalle nuove potenze industriali. Un istruttivo squarcio sulla compenetrazione in corso si potrebbe ricavare da una ricognizione sulla proprietà dei club calcistici europei. È una compenetrazione sregolata, che ha trovato impulso e legittimazione in quella che approssimativamente si può definire l’ideologia neoliberale, non troppo sensibile fra l’altro, ai temi della democrazia e dei diritti fondamentali.

Il libro di Ferrarese ha la virtù della sintesi, oltre che di una scrittura di esemplare chiarezza, a confronto con un tema impervio. È un libro che suscita riflessioni, sollecita approfondimenti, disegnando una mappa circostanziata, ma anche critica, per addentrarsi nella selva dei nuovi poteri, dove la fluidità, provvisorietà, revocabilità, incertezza si oppone alla stabilità che era vanto degli assetti precedenti, confermata dal nome stesso della loro istituzione fondamentale: lo Stato. Supremo garante, rammentiamolo, nella versione classica, dell’ordine e della sicurezza. In realtà, questa originaria vocazione dello Stato lascia qualche sostanzioso residuo, anche nelle relazioni internazionali, che appaiono segnate da un minaccioso soprassalto di bellicosità, che rivela quanto sia fragile la trama dei nuovi poteri.

Ci si era illusi – o si era raccontato – che la globalizzazione fosse spontaneamente pacifica. Ha suscitato nuove potenze economiche, grandi e intermedie: le cui ambizioni non si sono ristrette all’economia. L’Occidente ha disseminato le sue tecnologie militari e altre ne sono state sviluppate. Mentre l’egemonia americana, e di riflesso occidentale, suscita crescente insofferenza. La Russia arranca sul sentiero della crescita, ma non dimentica l’era del bipolarismo e resta una potenza atomica. In questo clima sono stati rispolverati nazioni e nazionalismi. Gli studiosi hanno rietichettato questi ultimi come sovranismo e la sciagurata aggressione militare contro un Paese confinante con l’Unione europea suscita appelli nientemeno che a un metanazionalismo occidentale e atlantico, con tanto di addobbo liberaldemocratico. È da notare come si sia aggiornato anche il dress code del nucleo violento della statualità. Non era d’uso, almeno nei regimi democratici, che le autorità civili indossassero panni guerreschi. Da qualche tempo si compiacciono d’esibirsi in tuta mimetica.

Le metafore aiutano a descrivere, ma il senso e il dettaglio di una stagione tanto problematica sono ancora in gran parte da capire. Al momento della pandemia, dopo trent’anni di esperienza, sembrava che gli Stati occidentali intendessero assumere un atteggiamento più attivo e più autonomo dalle imprese e dai mercati finanziari, rivisitando il ruolo ancillare che avevano svolto dopo aver licenziato il keynesismo, ma non c’è stata conferma. La vitalità dei mercati è ancora ostinatamente prioritaria. Magari assumendo le forme descritte dalla teoria del crony capitalism, che sottolinea le connessioni clientelari tra élite imprenditoriali e élite politiche. Invece, fuori dall’Occidente, benché ossequiosi verso il mercato e le sue regole, molti Stati svolgono apertamente e accortamente un’azione di sostegno e di regia a beneficio del capitalismo nazionale – la Cina, sopra ogni altro – e condizionano l’Occidente tramite i cosiddetti fondi «sovrani».

Fuori e sopra gli Stati la situazione è ancor più complicata. La globalizzazione è stata condotta in assenza di quelle autorità pubbliche sovranazionali che avrebbero potuto mettere ordine tra i nuovi poteri. I tentativi d’istituirle sono riusciti solo in parte. L’Onu non ha colmato il vuoto, rispetto alle esigenze di governo. Non ce l’hanno fatta neanche il Fmi, il Wto, la Banca mondiale. Ha fatto di più e di meglio l’Europa. Era più facile, viste le dimensioni. All’atto pratico, tuttavia, per superare la diversità tra i Paesi membri, il governo europeo è affidato in misura preponderante al mercato, ad ogni sorta d’istituzioni tecniche e alla solita governance, definita multilivello. Non è detto che come principio di ordine questo sia sufficiente.

E allora? La fioritura di poteri nuovi nella sfera internazionale testimonia un fallimento, oltre cui c’è un disordine vieppiù bellicoso, magari reversibile, ma destinato a durare? Oppure, poiché qualche progresso dopotutto si registra, ricorda Ferrarese, importante, anche se non privo di ambiguità, in materia ad esempio di diritti umani e di sostegno allo sviluppo, nella fioritura dei poteri nuovi si può ravvisare una supplenza transitoria, il segno della faticosa costruzione di dispositivi in grado di colmare il deficit globale di ordine, di autorità pubblica, di cura dell’interesse generale, ormai planetario? Da una parte milita il pessimismo della ragione, dall’altra l’ottimismo della volontà. Chissà come andrà a finire.