Mosso da una preoccupazione politica di stampo liberale, Nicola Matteucci (1926-2006) in Positivismo giuridico e costituzionalismo (pp. 27-155), saggio dapprima comparso nella «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile» del 1963, fa i conti con l’orientamento difeso, a partire dagli anni Cinquanta, da Norberto Bobbio (1909-2004), essendo il pensiero di questi maggiormente rappresentativo dell’indirizzo scaturito dall’alleanza tra filosofia analitica oxoniense e normativismo kelseniano. Di formazione storicista, sebbene ormai estraneo alla sintesi totalizzante dell’idealismo, Matteucci intendeva misurare, attraverso l’esame degli scritti bobbiani, la coerenza del giuspositivismo con le istanze della società contemporanea – mobile, industriale, di massa –, concludendo però negativamente: impostosi nell’Ottocento, quale teoria dello Stato sovrano, il positivismo giuridico esprime, infatti, un «ordinamento culturale assai vecchio» (p. 107), che Bobbio, aderendo alla svolta linguistica, rinnova soltanto in apparenza.

Non che le difficoltà del ragionamento bobbiano, evidenziate da Matteucci, impediscano di vagliarne le tesi, sottoposte anzi alla prova del criterio, mutuato dallo stesso filosofo torinese, del rigore logico. Bobbio, d’altronde, non desiderava scoprire le strutture essenziali dei fenomeni, attinte in base a un incontrovertibile principio aletico, interessandosi, invece, alla sintassi delle proposizioni scientifiche, i cui elementi semplici sono dotati di un significato stabilito convenzionalmente. Oggetto della scienza giuridica, il linguaggio del legislatore dev’essere quindi trasformato dall’interprete in discorso rigoroso, altamente formalizzato, favorendo così la diffusione dei paradigmi normativi tra i consociati, senza tuttavia rinunciare all’avalutatività dell’indagine. Allo scienziato sociale spetta di conoscere la realtà, cioè di descriverla neutralmente, per impossessarsene, secondo una metodologia ascritta da Matteucci non tanto a Weber, che ammetteva la Wertbeziehung, scelta valutativa connessa a un certo contesto storico, quanto, appunto, agli analitici e a Kelsen, severi censori della confusione di giudizi di fatto e giudizi di valore.

La giurisprudenza che voglia farsi scienza smette allora di dibattere sugli universali, abbandonando la domanda tradizionale della filosofia del diritto – quid ius? – alle fantasie dei metafisici, per studiare l’ambito, delimitato precisamente, della normatività positiva: tale, a parere di Bobbio, l’ufficio della teoria generale del diritto, che considera esistenti le norme valide, non importa se disattese o se ingiuste, a differenza della unilaterale giurisprudenza sociologica, che riduce la validità al fatto dell’efficacia, e del giusnaturalismo, che la validità inferisce dal contenuto di giustizia delle regole. Senonché Bobbio, distinti i criteri della validità, dell’efficacia e della giustizia – legittimi, rispettivamente, nel dominio della teoria generale del diritto, in sociologia e in filosofia politica –, tradisce la premessa epistemologica, stimando qualificativo dell’oggetto della scienza giuridica non la validità, ma l’efficacia, a causa dell’avversione per lo statualismo.

Una norma giuridica, del resto, non differisce, linguisticamente, da un generico enunciato prescrittivo, volto a influenzare l’altrui contegno, rimanendo, pertanto, indecidibile la questione della validità, che Bobbio, resa la giurisprudenza astratta logica deontica, non riesce a dirimere sul piano formale. L’attributo giuridico è dunque detto carattere originario dell’ordinamento, che contraddistingue altresì le norme, valide come parti di un insieme coordinato: la giuridicità delle prescrizioni discenderebbe, in definitiva, dall’efficacia rafforzata dell’ordinamento, munito di specifici apparati sanzionatori, donde l’equivoco in cui Bobbio, per Matteucci, incorre, oscillando tra analisi linguistica dei comandi e sociologia degli organi coercitivi.

Una norma giuridica, del resto, non differisce, linguisticamente, da un generico enunciato prescrittivo, volto a influenzare l’altrui contegno, rimanendo, pertanto, indecidibile la questione della validità

Non soddisfa neppure la soluzione offerta all’enigma della Grundnorm, misterioso presupposto a priori dell’ordinamento, avvitandosi Bobbio nel circolo del potere, capace di garantire efficacia di fatto ai comandi, e della norma, che impone contestualmente ai cittadini di obbedire a un’autorità eslege. Il diritto manifesta quindi la volontà del gruppo sociale dominante, che, elusi i vincoli escogitati dal costituzionalismo, non è sanzionabile, mancando necessariamente al vertice dello Stufenbau, centro genetico dell’ordine normativo, un potere a ciò preposto.

All’interpretazione meccanica, che nella legge scorge, dalla scuola dell’esegesi al positivismo novecentesco, un imperativo supremo, pedissequamente applicato, è allora preferibile l’apprezzamento, equitativo e teleologico, del diritto, «patrimonio di tutti e non monopolio del sovrano» (p. 131): la giustizia, fine del diritto, aborrisce la fallace neutralità della scienza, esigendo dal leguleio un concreto impegno politico, diretto a proteggere gli individui dalla violenza dello Stato e dei corpi intermedi. Tornava a tal proposito utile la separazione, elaborata nel Duecento da Bracton, di gubernaculum e iurisdictio, che Matteucci però modifica, collocando tra i poteri da limitare, unitamente all’esecutivo, il Parlamento. La tutela dei diritti dei singoli pertiene, insomma, alle corti, che accertano l’adeguatezza della legislazione ordinaria alle norme costituzionali, deposito dei «grandi princìpi etico-giuridici della nostra civiltà» (p. 92), risultando il governo dei giudici il vero governo delle leggi.

Il positivismo giuridico, che Bobbio declinava in metodo scientifico avalutativo, in teoria statualistica e in ideologia legalistica, era poi ricondotto da Matteucci, storicista interessato all’unità dei processi culturali, al contrassegno onnicomprensivo dello statualismo, supremazia del potere sul diritto, verso cui convergevano, inevitabilmente, metodo e ideologia. Sorprendeva soprattutto Matteucci che Bobbio, liberale e progressista, seguisse una dottrina «carica di elementi autoritari» (p. 44), non temperata dalla perorazione – anodina – del giusnaturalismo come ideologia, testimonianza, comunque, di un’iniziale inquietudine.

Il positivismo giuridico, che Bobbio declinava in metodo scientifico avalutativo, in teoria statualistica e in ideologia legalistica, era poi ricondotto da Matteucci al contrassegno onnicomprensivo dello statualismo, supremazia del potere sul diritto

A Matteucci Bobbio avrebbe replicato privatamente, affidando le sue riserve a una lettera del 25 luglio 1963, che, apparsa già nei «Materiali per una storia della cultura giuridica», è adesso riproposta (pp. 157-169) dal curatore del volume, Tommaso Greco, per trasmettere al pubblico la felice impressione di partecipare al dialogo tra due delle voci più rilevanti della filosofia pratica del secondo Novecento.

Corrispondente urbano, Bobbio ringraziava Matteucci, nel cui scrupolo bibliografico colse «una specie di pro-memoria» (p. 159), ausilio per una futura critica di se stesso. Non era captatio benevolentiae, se Bobbio faceva seguire, subito dopo, obiezioni di indole psicologica e teoretica: quelle, relative al suo presunto intellettualismo, che sacrificherebbe l’individualità storica per gli schemi generali, separando, inoltre, la scienza dalla vita; queste, tese a rovesciare l’accusa di insufficiente affrancamento dallo statualismo. Notevole l’appunto, rivolto da Bobbio a Matteucci, di aver rinunciato all’obiettività scientifica, giudicando autenticamente costituzionali solo i regimi di common law, a dispetto dell’evidenza, che mostra ogni Stato reggersi su una norma fondamentale, dagli Stati Uniti d’America alla Cina maoista.

Segnaliamo, da ultimo, il saggio introduttivo di Greco, Il costituzionalismo come cultura giuridica (pp. 5-25), che ricostruisce, oltre alla storia editoriale, i temi del lavoro di Matteucci, ponendo pure un nesso tra il contributo del 1963 e gli sviluppi della riflessione di Bobbio.