“Buonasera professore, lo scorso semestre ho seguito il suo corso di […] e volevo ringraziarla. Al di là della materia, infatti, grazie ai suoi continui inviti sono tornata a seguire le lezioni in presenza dopo un anno e mezzo che non lo facevo più, metà del quinto anno e tutto il primo anno di università. Il caso ha voluto che le sue esortazioni coincidessero esattamente con un periodo in cui a casa la situazione era complessa, se non fossi tornata in presenza mi sarei persa un altro anno di amicizie, di vita universitaria e di contatto con la realtà. Quindi semplicemente grazie per questo e per averci insegnato a non “provarci” solamente ma a mettercela tutta in quello che facciamo” [mail di una studentessa al prof. Borra.]
Questo messaggio di posta elettronica è arrivato nel mezzo del dibattito che da qualche tempo anima le nostre università. Che cosa fare per il prossimo anno accademico? Tornare all’insegnamento tradizionale, con docenti e studenti in classe, passaggi di appunti e studio individuale per chi non riesce a essere in aula, oppure mantenere la modalità ibrida, trasmettendo le lezioni anche in streaming, in modo da raggiungere chi non può o non vuole seguire in presenza?
Per molti, e noi tra questi, la risposta è netta a favore di un ripopolamento anche fisico delle aule, delle biblioteche e dei cortili dei nostri atenei, verso lezioni che permettano trasferimento di conoscenze e dialogo diretti, non mediati dalla tecnologia, seppure non disconoscendo il ruolo chiave giocato da quest’ultima nella gestione dell’emergenza; supportati in questo da studenti che la pensano come l’autrice della mail citata.
Per altri, la didattica ibrida è invece la strada maestra per accompagnare gradualmente studenti non ancora pronti a un ritorno in classe, per contrastare un loro significativo trasferimento verso altre università, per supportare tutti quegli studenti che non possono venire in presenza. Se l’estrema importanza e delicatezza dell’ultimo punto richiede una riflessione profonda, ci sembra intanto fondamentale evidenziare lo stato dell’università in questo momento a cavallo tra fine pandemia e inizio di una nuova epoca.
Per molti di noi è difficile togliersi di dosso la sensazione che l’università sia morta col Covid. Ha vissuto a lungo, si dirà. Come il sito dell’Alma Mater Studiorum ci ricorda, la sua nascita, a cavallo tra XII e XIII secolo, è dovuta ad “associazioni di mutua previdenza, dette nationes, indispensabili per i tanti studenti stranieri bisognosi di ritrovare in città un nucleo di connazionali nel quale sentirsi tutelati e protetti”, destinate a divenire, all’inizio del Duecento, cooperative sovranazionali – chiamate appunto universitates – che “eleggevano i loro rettori tra i migliori studenti, sostenuti dai rappresentanti della varie nationes e da un più allargato consesso di scolari. Queste figure rispecchiavano la natura studentesca dell’organizzazione universitaria e ne rappresentavano i valori nelle sedute cittadine, ne amministravano il corretto funzionamento interno e ne presiedevano l’apparato giuridico”.
Non solo da secoli gli studenti non eleggono più i rettori, ma oggi stanno scomparendo. Come le lucciole di Pasolini, hanno cominciato ad andarsene all’improvviso, trasformandosi in un ricordo del passato. Potrebbe sembrare che tale scomparsa sia da attribuire per intero alle moderne tecnologie che hanno soppiantato il curioso e antico fenomeno del docente in presenza; andrebbe invece evidenziato come l’uso di tali tecnologie, introdotto per decreto dalla sera alla mattina per arginare gli effetti devastanti della pandemia da Covid, abbia permesso alle lucine dei nostri studenti, seppure affievolite, di non spegnersi del tutto. Il punto cruciale sta nella mancanza di un analogo decreto, volto a rimuovere l’uso tecnologico intenso per il prossimo anno accademico, trasformando così uno strumento rivelatosi salvifico in tempi di emergenza in un’arma letale per le ultime lucciole.
Ma quando hanno iniziato a scomparire, studenti e studentesse? Tutto è partito quando, più di un decennio fa, abbiamo voluto scrollarci di dosso la rilevanza della didattica e dell’istruzione come pilastri della missione universitaria, riorientando carriere e incentivi del personale docente (che docente quasi più non è) alla sola capacità di “pubblicare”. Ormai gli studiosi ancora desiderosi di insegnare in classi piene di giovani matricole del primo anno sono ridotti al lumicino, per timore di perdere quel tempo così prezioso da spendere utilmente in altro; piuttosto ci si dedica a classi piccine, con pochi studenti e quindi pochi esami e poco tempo da dedicare al ricevimento, ancora meglio se si tratta di classi di dottorato, élitarie, in cui trovare giovani con cui pubblicare articoli scientifici, grazie ai quali assicurarsi riconoscimenti e promozioni di carriera.
Continuiamo ad assistere inermi a un’accelerazione nella decimazione della popolazione studentesca. Studenti e studentesse, lucciole senza luce, nelle nostre aule sempre più deserte non li vediamo più
Continuiamo così ad assistere inermi a un’accelerazione nella decimazione della popolazione studentesca. Se studenti e studentesse sono ancora presenti come numero, non li vediamo più, lucciole senza luce, nelle nostre aule sempre più deserte. Il rifugiarsi di tanti giovani, spaventati o annoiati, dietro telecamere spente che assomigliano a grotte buie permette di attribuire a loro stessi la colpa di questa scomparsa. Sono loro i pigri, sono loro che desiderano rimanere a casa, per evitare di spostarsi, fare domande, partecipare. Sulla scia di questo ragionamento, la ratio per la didattica ibrida: sono loro che ci abbandonerebbero, se li obbligassimo al ritorno in presenza; non possiamo dunque fare altro che lasciarli rintanati nelle loro grotte.
Così i nostri giovani non imparano. Perché non si concentrano, non si incontrano, non sperimentano la diversità. Trovano non tutela e protezione, ma solitudine e depressione. Siamo noi, adulti e docenti, che dovremmo spingerli a uscire, non limitandoci a sperare che riescano a emergere da soli, decidendo in autonomia di raggiungere l’università nonostante il freddo, la pioggia, il caldo o l’autobus affollato, resistendo al richiamo invitante di una lezione seguita comodamente da casa, una voce oltre lo schermo, dietro all’ennesima slide.
Un ragionamento a parte merita poi il tema della disabilità, che impedisce da sempre a molti studenti la presenza in aula. Per loro la didattica a distanza sembrerebbe la panacea, uno strumento che azzera le differenze, ponendoli finalmente nelle stesse condizioni di chi tali disabilità non ha. E invece proprio per loro è ancora più importante non cedere al richiamo della Dad e favorire ancora di più l’accesso in presenza, spingendo così a rimuovere le tante barriere, non solo architettoniche, che troppo spesso li tengono lontani. Tutti i disabili che possono venire in aula devono poterlo fare, perché anche per loro si tratta di un'esperienza decisiva di crescita e di arricchimento. Per questo occorre un investimento rilevante per assicurare che l'università abbia strutture e organizzazione all'altezza dei tempi, efficaci e attente a risolvere e facilitare la presenza in aula di persone che, nonostante la diversità, meritano pari condizioni di accesso.
È cruciale trovare una soluzione diversa dalla didattica ibrida, che farebbe danno a tutti, a chi resta a casa e a chi viene in aula; una didattica non adatta né agli uni né agli altri
Ci sono coloro che non possono venire in aula, è vero. Non sono solo disabili gravi, ma anche chi vive così lontano da non poter frequentare, chi lavora, chi si trova in carcere. Per tutti è cruciale trovare una soluzione, che deve essere diversa da quella della semplice didattica ibrida, che farebbe danno a tutti, a casa e in aula; una didattica non adatta né agli uni né agli altri.
Pensiamo poi all’impatto di una didattica ibrida sugli studenti stranieri. Tanti sforzi per creare percorsi in lingua inglese e attirare da noi ragazzi da ogni parte del mondo, per arricchire i nostri spazi universitari della presenza di culture e costumi diversi dai nostri, liberi di poter interagire fra loro. Quali conseguenze si avrebbero se questi studenti seguissero le lezioni a distanza? I limiti nel livello di interazione e apprendimento con le piattaforme telematiche trovano conferme in recenti articoli su prestigiose riviste scientifiche che mostrano come le capacità neurologiche tra individui si riducano passando da una relazione de visu a una mediata da piattaforme telematiche.
Non si tratta di dimenticare e tralasciare le opportunità che si sono aperte grazie alla maggiore conoscenza e diffusione delle tecnologie per la didattica a distanza, va da sé; piuttosto occorre sfruttarne le potenzialità per una didattica migliore, certamente non alternativa alla presenza.
La didattica del prossimo anno – confermata sempre più come “ibrida” benché, ci auguriamo, non più motivata da una pandemia – peggiorerà la qualità dell’insegnamento e aumenterà le probabilità di abbandono e di ritardo nella laurea, fenomeni che ci piazzano già da anni agli ultimi posti nelle classifiche europee. Invece di approfittare di questo tempo per chiederci come rendere gli spazi universitari finalmente vivibili e attraenti, per riportare meglio di prima i nostri giovani a una vita in comune, fatta di esplorazione e conoscenza reciproca e di lavoro in squadra, pensiamo a come migliorare le tecnologie per tenerli più lontani da tutto ciò. Al posto di persone in grado di vivere con entusiasmo in comunità di diversi, dove affinare il dialogo e la comprensione, stiamo ultimando il processo di formazione di persone incapaci di affrontare adeguatamente le difficoltà della vita.
Eppure – in quei luoghi ormai abbandonati che ci ostiniamo a chiamare, impropriamente, università – c’è ancora chi per uno studente in più in classe, seduto al banco, magari con la mano alzata, rinuncerebbe a tutta la tecnologia del mondo. Da qui dovremmo ripartire.
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