Una ricerca classica sugli insegnanti efficaci, negli anni Novanta del secolo scorso, aveva evidenziato che una delle caratteristiche qualificanti i migliori insegnanti era che essi, all’inizio dell’anno scolastico, dedicavano molto tempo a spiegare e condividere le regole di comportamento in classe e a scuola, e a farle condividere ed interiorizzare ai loro studenti. Possiamo immaginare che nelle condizioni attuali tale comportamento virtuoso sia da auspicare e stimolare e da allargare anche alla dimensione sanitaria. L’emergenza e l’inevitabile incertezza che accompagna la riapertura delle scuole imponendo una attenzione speciale alla tutela massima possibile della salute, richiedono alla scuola anche questa funzione di insegnamento di nuove regole di condotta interpersonale, sperabilmente provvisorie ma necessarie. E dunque emerge una funzione di protezione della salute, intesa come bene primario, prima ancora che una funzione di educazione e istruzione. (Meglio un asino vivo che un dottore morto era la formula con cui si archiviava l’aspirazione delle masse popolari all’istruzione). Il rischio di trasformare la scuola in un presidio parasanitario spaventa giustamente tutto il personale, ma occorre considerare con equilibrio l’imperativo attuale e cogente di convergere con le politiche di prevenzione del contagio e quello di tutelare il diritto all’istruzione e all’educazione di tutti, che rischia di sbiadire nella attuale temperie. Il dibattito sui media e le stesse indicazioni che provengono dalle aree ministeriali, e dai Comitati ad hoc costituiti, manifestano una priorità per gli aspetti sanitari e materiali (i banchi!!) che, se va compresa data la situazione, va collocata nella dimensione emergenziale e denunciata per la sua inevitabile parzialità e provvisorietà.La scuola come presidio di civiltà include l’attenzione alla salute e alla incolumità fisica, ma questa non è il suo tratto distintivo.
Alla ripartenza del resto le regole da condividere non possono essere solo quelle di tutela della salute. Sarà utile o necessario anche prefigurare e concordare con gli studenti le modalità di lavoro a distanza, qualora si dovesse ricorrere a sospensioni della didattica in presenza. Infatti quella che ci lasciamo alle spalle come esperienza di didattica a distanza è più correttamente da individuare come didattica in emergenza, esperita perlopiù in modo volonteroso e generoso, ma improvvisata e in nessun modo scelta. E la cifra di quell’esperienza risente in pieno della condizione di improvvisazione che si è resa necessaria. Dove il termine improvvisazione abbraccia contemporaneamente due fattori apparentemente contrastanti: il lievitare della quantità di tempo di lavoro dedicato da insegnanti e dirigenti (per familiarizzare con piattaforme, software, risorse della rete eccetera) e la contrazione dei tempi netti di istruzione erogata e fruita dagli studenti, per molte ragioni. I risultati della didattica in emergenza, che cominciano ad essere resi noti da alcuni sondaggi affidabili, testimoniano la grande varietà di situazioni e differenti problematiche per i diversi livelli scolastici. Ma si può affermare che a tutti sono mancate esperienze cruciali implicate dalla durata: la socialità assicurata dai gruppi e dal gruppo classe, con le connesse dinamiche di imitazione, amicizia, conflittualità, competizione, collaborazione e connessa a momenti di scuola sia formali che informali. Ed anche un’altra dimensione implicata dallo “stare a scuola” e spesso sottovalutata: l’organizzazione dei tempi e delle routine di lavoro, che aiutano la gestione e dislocazione dell’attenzione, la capacità di pianificazione dei processi e dei compiti di apprendimento, l’acquisizione dell’autocontrollo e autogestione indotte dal gruppo (con esiti diversi a seconda delle età degli allievi, ma sicuramente devastanti, per esempio, per le prime classi della scuola dell’obbligo), e quel consolidamento di alcuni apprendimenti che nasce dal lavoro collettivo e perfino dalla ripetitività. Certamente altri apprendimenti diversi sono stati assicurati dalla necessità di interagire con strumenti nuovi, realizzare prodotti diversi - soprattutto per gli allievi più grandi -, ma con una estrema variabilità in cui sono state decisive le risorse familiari e ambientali di ciascuno. Il rischio non tanto nascosto è che la mancanza del lavoro in aula abbia riconsegnato alle famiglie un ruolo decisivo e qualificante nell’apprendimento dei propri figli, allargando in modo drammatico le differenze tra i ragazzi, in base alla loro appartenenza, e sabotato di fatto per molti il processo di rimozione degli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana.
Nell’immediato, perciò, si impone alla classe docente la necessità di un’attenzione puntuale ai singoli. Occorre evitare di presumere che la didattica di emergenza abbia assicurato per tutti il conseguimento dei traguardi previsit; andranno piuttosto verificate puntualmente le conoscenze e abilità conseguite, sapendo che la mancanza di scuola non ha certamente agito in modo uniforme sui singoli studenti, e che verosimilmente avrà accentuato le differenze e le distanze sul piano delle competenze consolidate, come dimostra la ricerca internazionale su “i compiti delle vacanze”. Così come sarà necessario non ignorare le condizioni esistenziali intervenute: i possibili effetti di isolamento sociale, quelli di intossicazione digitale, fino a forme di stress post traumatico correlate all’isolamento.
Sulla base di una stima realistica, sarà necessario agire una progettazione chiara e ragionata del lavoro didattico. Il tema della riduzione o semplificazione dei programmi, di cui si è parlato ampiamente durante il lockdown, va assunto con consapevolezza chiedendosi “che cosa significa ridurre/selezionare i programmi”. È un passaggio cruciale che può essere innovativo se significa domandarsi, o “tornare a domandarsi” quali traguardi sono indispensabili o non rinunciabili e quali abilità o competenze devono essere prioritamente padronegggiate nelle varie aree disciplinari.
Si tratta di una prospettiva realistica se si salda con il lavoro collegiale nelle scuole, e con una forte volontà anche della dirigenza scolastica, di promuovere un cambiamento di lungo periodo. Ma il problema non riguarda solo i docenti e il personale della scuola.
Come si capisce, la riapertura delle scuole impone considerazioni di prospettiva, e non solo di contingenza. Appare quanto mai urgente una riflessione sul significato del fare scuola, e su tale base recuperare poltiche di innovazione sensate e di lungo respiro. Sul piano prospettico va detto che l’emergenza ha reso particolarmente evidenti alcuni problemi cronici della nostra scuola. Come la scarsa innovatività sul piano organizzativo e gestionale, che pure sarebbe praticabile secondo la normativa vigente, e lo scarso investimento nella formazione continua e in servizio dei docenti, che continuano a rappresentare il fattore decisivo dell’efficacia. E in particolare secondo alcune direttrici. La prima è sicuramente la competenza metodologico-didattica, soprattutto nella scuola di secondo grado, attestata per esempio dal panico diffusosi in ordine alla valutazione a fine anno; e include anche il controllo del rischio che il ricorso massiccio alla videolezione distolga gli insegnanti dalla lenta e faticosa transizione verso forme di apprendimento più attivo che risultavano anche in precedenza poco praticate nel nostro Paese (v. l’indagine Talis, Teaching and Learning international Survey). Un’altra direttrice riguarda sicuramente la tecnologia nei processi di insegnamento e apprendimento, per la quale sono troppo diffuse forme di marketing irresponsabili e incompetenti, e per la quale occorrono politiche e pratiche sostenute dalla conoscenza critica dei mezzi. Una terza è la dimensione del lavoro collegiale e condiviso come garanzia dello sviluppo professionale e della sostenibilità del miglioramento.
Una nuova consapevolezza dell’imprescindibile funzione della scuola, che gli eventi recenti hanno drammaticamente sottolineato, dovrebbe sicuramente favorire il riconoscimento sociale conveniente per la figura degli insegnanti, e non soltanto perché sono tra le categorie maggiormente a rischio nell’attuale contesto.
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