Le ricorrenze e gli anniversari, quando non si riducono a mere giaculatorie celebrative o a nostalgici ricordi, sono momenti importanti: consentono di riprendere il filo di un discorso da dove lo si era lasciato, dando tempo al tempo perché, allontanandosi dall’oggetto di osservazione, la prospettiva si allunga e si allarga, e ciò che da vicino appariva in un modo, visto a distanza appare non diverso, ma più complesso, poiché «entrano in campo» elementi che non c’erano, né potevano esserci nel primo sguardo.
È ciò che mi è accaduto con Paulo Freire, grazie alla ricorrenza dei cento anni dalla sua nascita, a Recife, in Brasile, il 19 settembre 1921. Freire si era laureto in Legge, ma il suo principale interesse di studio era rivolto alle scienze sociali e dell’educazione; alla fine non si dedicò alla professione di avvocato, ma di insegnante, impegnandosi anche sul piano politico. Freire considerava l’educazione e la politica come due aspetti inevitabilmente legati tra loro, un legame complesso, dialogico o conflittuale. Fu questa consapevolezza a portarlo verso l’istruzione degli adulti analfabeti che, non sapendo leggere e scrivere, non avevano diritto al voto. Su questa esperienza Freire ha costruito l’impianto della sua pedagogia, fatta di scientificità teorica e metodologica e di testimonianza diretta, di partecipazione al processo di cambiamento visto come «coscientizzazione». Nel 1964 il colpo di Stato e la dittatura lo costrinsero all’esilio (Stati Uniti, Europa, Africa); rientrerà in Brasile quindici anni dopo dedicandosi all’insegnamento universitario e a incarichi politici nel campo dell’educazione.
A metà degli anni Settanta, quando lavoravo come educatore, appena laureato in Pedagogia, mi ero tuffato nella lettura dell’opera più famosa di Freire, La pedagogia degli oppressi, a cui seguì L’educazione come pratica di libertà (entrambi tradotti da Mondadori, rispettivamente nel 1971 e nel 1973). Ero attratto dal tema cruciale in pedagogia del rapporto fra teoria e pratica, e su come l’educazione potesse definirsi anche come impegno sociale e politico. È superfluo ricordare come quelli fossero anni carichi di suggestioni culturali, di (dis)orientamenti e di lacerazioni che attraversavano la società nel suo complesso, di cui la scuola e l’animazione culturale costituivano dei formidabili «laboratori» ricchi di conflitti e sperimentazioni. Su quel tema specifico, la cui attualità mi toccava direttamente, non avevo trovato risposte esaurienti durante gli studi universitari, a parte una: l’incontro con la pedagogia fenomenologica di Piero Bertolini, le sue lezioni in cui univa spesso la narrazione delle esperienze educative e dei casi che aveva incontrato e trattato, con una capacità di analisi di quelle esperienze attraverso una chiave di lettura fenomenologica.
È superfluo ricordare come quelli fossero anni carichi di suggestioni culturali, di (dis)orientamenti e di lacerazioni che attraversavano la società nel suo complesso, di cui la scuola e l’animazione culturale costituivano dei formidabili "laboratori" ricchi di conflitti e sperimentazioni
A distanza di qualche anno da quegli studi, immerso nel lavoro educativo, la lettura di Paulo Freire mi ha come riconnesso con quegli studi. Trovavo nei suoi scritti alcune formidabili assonanze con la «pedagogia fenomenologica» (Freire cita fra gli altri Husserl, Jaspers) che avrebbe poi orientato i miei successivi studi e il mio lavoro universitario. Quando, nel 1989, l’Università di Bologna gli assegnò la laurea honoris causa in Pedagogia, ero ricercatore da pochi anni, fu (non solo) per me un momento di grande emozione, soprattutto la partecipazione al seminario che tenne a ridosso di quell’evento nel dipartimento di Scienze dell’educazione: eravamo una decina di persone con lui, intorno a un tavolo a discutere del ruolo e della professionalità dell’educatore. Non posso dimenticare l’intensità del suo sguardo, la sua fisicità nei gesti, la forza comunicativa della sua voce.
Il fascino di Freire, che si coglie tuttora pienamente nella lettura delle sue opere, è la sua capacità di rappresentare l’educazione come un «dramma», nel senso originario di δρᾶμα, cioè azione che coinvolge l’educatore e gli educandi come attori di un’esperienza in cui si co-costruisce l’educazione. La centralità della relazione reciproca che Bertolini ha descritto in chiave fenomenologica come una «direzione intenzionale originaria» dell’educazione, quindi una sua struttura portante, in Freire, calata nella realtà dell’alfabetizzazione degli adulti, di quegli «ultimi della Terra» con cui lui ha lavorato e costruito il suo metodo, diventa «dramma». L’educazione è un’azione drammatica connotata da dicotomie irriducibili a procedure didattiche standardizzate, destinate pertanto a rimanere aperte, ma non vaghe se producono buone pratiche e da esse buone teorie. Dicotomie quali il rapporto fra parola e silenzio, soggettività e oggettività, pazienza e impazienza, infine teoria e pratica animano la pedagogia di Freire generando quella tensione (nell’educatore come nell’educando) necessaria all’azione educativa e che ha nel gestire processi di cambiamento la sua più autentica motivazione.
Non si può disarticolare il discorso pedagogico di Paulo Freire dal contesto sociale in cui «si è fatto carne», per usare le sue stesse parole, cioè il Brasile e l’educazione degli adulti analfabeti negli anni Cinquanta/Sessanta, la dittatura e la censura, e poi l’Africa dei Paesi in lotta per uscire dal colonialismo; quel Brasile che è stato non a caso, in quegli stessi anni, il principale laboratorio della «Teologia della liberazione», che Freire conosceva. Ma anche l’ambiente in cui Augusto Boal ha sviluppato il suo «Teatro dell’oppresso» con quella idea dello spet-attore in evidente sintonia con la concezione educativa di Freire; infine, i fenomeni culturali del «Cinema Novo» (Glauber Rocha, Nelson Pereira Dos Santos tra gli altri) e della «Mùsica Popular Brasileira» (Caetano Veloso, Chico Buarque de Hollanda, Gilberto Gil ecc.), tutte realtà in aperto contrasto con le forme del potere, che non producevano ideologie, ma idee e processi culturali di cambiamento.
Il fascino di Freire, che si coglie tuttora pienamente nella lettura delle sue opere, è la sua capacità di rappresentare l’educazione come un "dramma", nel senso originario di δρᾶμα, cioè azione che coinvolge l’educatore e gli educandi come attori di un’esperienza in cui si co-costruisce l’educazione
Che la pedagogia con Paulo Freire sia stata una delle punte di eccellenza di quel tempo e di quella società, in un difficile percorso di ricerca di forme di libertà costato per molti censura, carcere, esilio, ma i cui riverberi sono arrivati ovunque e ovunque sono diventati cultura, può farci comprendere quale sia il difficile, essenziale ruolo dell’educazione. A chi fa il mestiere di insegnante e di educatore viene richiesta una testimonianza (tema questo molto chiaro e molto caro alla pedagogia di Freire) in cui, se l’educazione è «pratica di libertà» questa va vissuta non nelle forme velleitarie del libertarismo, ma delle azioni possibili e responsabili. E il problema della libertà non riguarda solo le società dove essa è palesemente negata o violata, ma anche quelle che la proclamano, dove però i soggetti vivono altre condizioni di soggezione, forse più subdole e seduttive, con quel flic dans la tête (il poliziotto nella mente) come ironicamente lo chiamò Augusto Boal arrivato in Europa col suo Teatro dell’oppresso.
La scrittura pedagogica di Paulo Freire conserva tutta la profondità di una riflessione che è la sostanza teorica di una pratica educativa. Spesso da varie parti si è accusata la pedagogia di perdersi in discorsi sull’educazione chiusi in sé stessi; un’accusa in certi casi del tutto pertinente, in altri generica e fatta da chi poco fa e poco sa di pedagogia e di educazione. Lo sapeva molto bene anche Freire quando nella Pedagogia degli oppressi scrive: «Se alla parola manca il momento dell’azione, ne viene sacrificata anche la riflessione, e ne risulta un’inflazione di suoni, che è verbosità, bla-bla-bla. Perciò parola alienata e alienante […]. Non esiste denuncia autentica senza impegno a trasformare, e non esiste impegno senza azione» (p. 106). Non so se Greta Thumberg abbia letto l’opera di Freire, ma quel «bla-bla-bla» che lei ha lanciato come slogan di denuncia del parlare senza agire, a proposito della grande crisi ambientale che stiamo vivendo, suona come una citazione.
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