A metà degli anni Ottanta del secolo scorso un gruppo di studiosi di varie discipline – chiamati a raccolta da Quentin Skinner – si domandava se in alcune tendenze intellettuali in voga al tempo si potessero cogliere i segni di un ritorno alla «teoria in grande stile»(Grand Theory) nelle scienze umane. L’ipotesi da cui essi muovevano era che nei lavori di autori per altri versi lontani come John Rawls, Hans Georg Gadamer, Jürgen Habermas, Thomas Kuhn, Claude Lévi-Strauss, Michel Foucault, Louis Althusser, Jacques Derrida e gli storici raccolti intorno alle «Annales» si riconoscesse una comune aspirazione a uscire dai rigidi limiti che l’empirismo dominante, in particolar modo negli Stati Uniti, aveva imposto agli studi umanistici. Lo scopo di Skinner, curatore del volume che raccoglieva i diversi contributi, era evidentemente di gettare un sasso nello stagno della comunità accademica di lingua inglese.
L’effetto, come accade di frequente con le provocazioni intellettuali, fu inferiore alle aspettative. Forse anche perché, come possiamo dire oggi con il beneficio della prospettiva storica, alcune delle Grand Theories discusse nel libro si sarebbero rivelate ben presto dei palloni pieni d’aria destinati a sgonfiarsi e a ricadere al suolo. Lo stesso empirismo avrebbe invece mostrato una vitalità sorprendente dando origine, proprio in quel periodo, a diversi indirizzi di ricerca – nei campi dell’economia, della psicologia, delle scienze cognitive – che in alcuni casi avrebbero manifestato a loro volta ambizioni da Grand Theory. Un esempio è Darwin’s Dangerous Idea (1995) di Daniel Dennett, un ambizioso saggio di filosofia che è anche un manifesto di un nuovo approccio evoluzionistico di naturalizzazione delle scienze umane.
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Riproduciamo qui l'incipit del "macinalibro" di Mario Ricciardi pubblicato sul “Mulino” n. 4/14, pp. 684-686.
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