Nel dibattito pubblico nazionale, tiene banco da alcune settimane la decisione del sindaco di Venezia Luigi Brugnaro di sperimentare “varchi” per gestire l’afflusso turistico in città. Dal ponte del primo maggio alcuni tornelli sono stati posizionati nei principali punti di accesso terrestre alla città, con la possibilità di essere chiusi nei giorni da “bollino nero” in cui l’afflusso di visitatori si prevede particolarmente rilevante. L’intento sarebbe quello di indirizzare i turisti, in caso di chiusura, verso direttrici meno trafficate, in ottemperanza al mantra dell’amministrazione di “spalmare” le masse di visitatori in zone della città meno congestionate, sperando con questo di poter rispondere alla crescente domanda della città di “gestire i flussi”.
La sperimentazione ha avuto però esiti curiosi: i varchi non sono mai stati realmente attivati, e il loro unico ruolo è stato quello di fare in modo che se ne parlasse, anche per via delle iniziative di contestazione che li hanno una prima volta smontati, e un’altra simbolicamente chiusi, chiedendo ai passanti di esibire il biglietto di accesso al nuovo parco tematico “Veniceland”. In definitiva l’iniziativa dell’amministrazione ha avuto un carattere puramente mediatico, e se letta in parallelo ad altri aspetti meno dibattuti ma assai più rilevanti dell’azione di governo cittadina sul tema del turismo, può essere interpretata come una cortina fumogena per nascondere sotto la polarizzazione del dibattito “tornelli si/tornelli no” la realtà di una città coscientemente messa a disposizione dell’espansione dello sfruttamento turistico.
Oggi si calcola che siano circa 30 milioni i turisti che si riversano ogni anno a Venezia, città che ha visto scendere la sua popolazione dai 175.00 residenti del secondo dopoguerra agli attuali 53.000 (dati riferiti alla sola città storica, e che quindi non comprendono la terraferma e le isole). Sul versante dell’offerta ricettiva, i dati ufficiali più recenti sono quelli estrapolabili dall’Annuario del Turismo 2015 prodotto dal Comune, che indica in 50.513 i posti letto disponibili nell'intero territorio comunale, la cui grande maggioranza (32.896) si localizza nella città storica. Di questi, 30.015 sono quelli offerti dalle strutture alberghiere e 20.498 quelli distribuiti nelle 2.889 strutture extra-alberghiere (cifra comprensiva di bed & breakfast e appartamenti in locazione turistica); ma non è detto che, specialmente per questi ultimi, i dati ufficiali corrispondano alla realtà. In questo settore, infatti, l’enorme crescita dei portali della cosiddetta sharing economy fa legittimamente pensare a una stima al ribasso, come si evince facilmente anche solo dal confronto con le iniziative di monitoraggio dal basso prodotte da progetti come Inside Airbnb. Secondo Alice Corona, che lavora al progetto assieme al suo fondatore Murray Cox, al “13 maggio risultano presenti su Airbnb ben 7.369 annunci per stanze o appartamenti nel Comune di Venezia. Di questi, almeno 5.048 possono definirsi attivi, avendo ricevuto una recensione – e dunque una prenotazione – negli ultimi 6 mesi. Il 77% degli annunci è un annuncio per affittare una casa intera, e non una stanza, e il 55% degli annunci appartiene a un host che affitta più di un casa intera o più di due stanze”, con buona pace dello sharing.
Significativamente, il fenomeno della locazione turistica si sta estendendo anche oltre la città storica, per raggiungere le aree di Mestre e Marghera in via di “riqualificazione”. È notizia recente, ad esempio, che in due anni gli appartamenti a uso turistico offerti su Airbnb sono raddoppiati a Venezia e isole, e decuplicati a Mestre e Marghera, dove si è passati dai circa 300 del 2015 agli oltre 3000 del 2017. Saturato o quasi il tessuto della città storica, l’industria turistica si propaga quindi in direzione della terraferma, tanto attraverso la messa in disponibilità del patrimonio edilizio residenziale favorita dalle nuove piattaforme di intermediazione, quanto con la tradizionale costruzione di nuovi ostelli e alberghi, come quelle recentemente effettuate nella zona di Ca’ Marcello e di via Torino dalla compagnia austriaca A&O e dal fondo d’investimento internazionale Mtk (composto da capitali austriaci, tedeschi, israeliani e cinesi). È stimato che il complesso di questi ed altri interventi analoghi arriveranno a offrire, nella zona attorno alla stazione di Mestre, oltre 15.000 posti letto, con il plauso dell’attuale amministrazione comunale, che con l’assessore al turismo, Paola Mar, fa sapere che così anche “Mestre è diventata una città turistica […] e questi investimenti sono un’occasione per darle dignità di città”.
Insomma, lo scenario quotidiano della città lagunare va ben al di là delle valutazioni sulla capacità di carico elaborate nel 1988 da Costa e Van der Borg, che indicavano come limite massimo per Venezia 7,5 milioni di presenze l’anno (una media di 20.750 al giorno) suddivisi tra 4,7 milioni di pernottanti e 2,8 milioni di escursionisti.
Attorno al tema della capacità di carico e dei numeri assoluti dei visitatori si assiste da alcuni anni a una bizzarra guerra di cifre, che a sua volta ha legittimato l’attendismo dell’amministrazione, impegnata da tre anni a “contare i turisti”. Gli stessi Costa e Van Der Borg hanno appena presentato a Ca’ Foscari una versione aggiornata del loro famoso studio, in cui il carico di visitatori sostenibile viene sensibilmente ritoccato al rialzo, portando il numero a 52mila visitatori al giorno, ovvero 19 milioni di visitatori l’anno. Questo innalzamento della soglia è dovuto a una semplice constatazione: rispetto a trent’anni fa è aumentata l’offerta ricettiva. Il modello di sostenibilità elaborato dai due studiosi ha dunque un’impostazione meramente descrittiva, elaborata a partire da variabili come il numero dei posti letto, l’ampiezza della superficie calpestatile di Piazza San Marco e la capienza del sistema di trasporto pubblico. Quello che però non viene preso in considerazione è un elemento difficilmente valutabile da un punto di vista esclusivamente quantitativo, eppure fondamentale: la definizione di un limite di sopportabilità sociale globale oltre il quale la natura stessa della città risulta complessivamente snaturata e ridotta a spazio iper-turistico, in cui i residenti appaiono occasionalmente come comparse sulla scena.
È però sufficiente osservare la lunga lista di mobilitazioni e cortei che si sono susseguite negli ultimi mesi per constatare come la cittadinanza locale sia tutt’altro che propensa a farsi relegare al ruolo di comparsa: dalla manifestazione del 2016 “Ocio ae gambe che go el careo”, in cui in centinaia sono scesi in strada armati di carrello per denunciare l’impossibilità di svolgere le azioni più quotidiane, come ad esempio andare a fare la spesa, al corteo “Mi no vado via” dell’estate 2017, in cui si rispondeva tra l’altro alle affermazioni di Brugnaro secondo cui il futuro di Venezia sarebbe Mestre (affermazioni queste che sono parse come una giustificazione dell’esodo di residenti verso la terraferma), fino alla “Marcia per la dignità di Venezia” dello scorso 10 giugno, promossa dal Comitato No Grandi Navi, a cui hanno partecipato migliaia di persone e aderito decine di comitati e associazioni locali.
A queste, vanno sommate le mobilitazioni in difesa del patrimonio pubblico, che come ha recentemente messo in evidenza la trasmissione “Report” è in via di progressivo smantellamento in vista di una sua propagandata valorizzazione, che a Venezia significa sempre e solo un unica cosa: alberghi e ristoranti. La lista degli immobili pubblici messi in vendita è lunga, e la trasmissione li riporta con una certa completezza: da Palazzo Poerio Papadopoli, ex sede dei vigili, a Palazzo Donà, ex sede dei servizi sociali, solo per fare alcuni esempi. Ma i casi più famosi sono certamente quello dell’isola di Poveglia, di cui voleva aggiudicarsi la gestione lo stesso Luigi Brugnaro (all’epoca semplice imprenditore) e l’Antico Teatro di Anatomia, noto in città come La Vida, di proprietà regionale, prima occupato e poi sgomberato.
A fronte quindi della sbandierate iniziative di conta e gestione dei flussi, Venezia sta vivendo un vero e proprio boom dell’offerta ricettiva, e il suo patrimonio pubblico viene costantemente messo al servizio dell’industria turistica che non cessa di aprire nuove attività tourist-oriented e sottrarre spazio alla comunità insediata. Il problema di Venezia è dunque ormai quello di una città che si trova nella condizione paradossale di “vivere di ciò che la uccide”, per usare le parole che le ha dedicato il filosofo Giorgio Agamben durante la presentazione, nel 2016, del libro di Salvatore Settis Se Venezia muore. Venezia è insomma diventata oggi il worst case scenario della turistificazione dell’urbano, della trasformazione della città storica da luogo dell’abitare a luogo del consumo, spazio del leisure che sacrifica la forma-città in favore dell’instancabile accumulazione di ricchezza promessa dall’industria turistica fattasi monocoltura, accentrando i profitti nelle mani di pochi ed espellendo gradualmente i suoi stessi abitanti. Il tutto sotto lo sguardo di amministrazioni incapaci di arginare il fenomeno, quando non decisamente tese a favorirlo nascondendosi dietro la retorica della valorizzazione e dell’attrazione di investimenti.
Ma forse Venezia può essere un caso paradigmatico anche in un altro senso, come dimostrano le iniziative di mobilitazione citate in precedenza e la miriade di esperienze associative, di riappropriazione e risignificazione dei luoghi che una comunità esigua dal punto di vista numerico ma estremamente combattiva è in grado di mettere in campo, anche imparando a fare rete a livello europeo con altre città preda della turistificazione di massa: un modello, certo fragile, di resistenza e attivazione civica che potrà forse essere in grado, se supportato, di ribaltare quello che a molti può apparire come un destino già segnato.
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