Dopo aver presieduto il comitato di esperti su come riavviare la scuola dopo la pandemia, Patrizio Bianchi ha prodotto per «Il Mulino» un libro che distilla idee e riflessioni maturate in quest'esperienza. In realtà, però, più che dell'emergenza contingente costituita dal virus, il libro parla di quell'emergenza strutturale che è l'istruzione italiana da almeno cinquant'anni.
Pur essendo assai snello, il saggio di Patrizio Bianchi parte dalle origini remote (o quasi) dell'istruzione e offre una sintetica carrellata delle sue finalità, da Platone fino ai nostri giorni. Questo gli costa qualche semplificazione, ma dà al saggio profondità e prospettiva. Se in principio, e per molti secoli, l'istruzione è servita a selezionare e legittimare la classe dirigente dandole gli strumenti culturali che ne giustificassero la posizione dominante, oggi nelle democrazie mature l'istruzione svolge il doppio ruolo di produrre lavoratori qualificati e di permettere a ogni cittadino, o meglio a ogni essere umano, di coltivare la propria indole in senso civile, intellettuale e spirituale, in piena libertà.
Dopo l'excursus storico, si arriva a quella che forse è la parte migliore del saggio, imperniata sul nesso tra sviluppo, capitale umano e crescita economica. In maniera agile ma puntualmente documentata, emerge chiaramente come la scelta dell'Italia di reagire alla «Grande Crisi» tagliando i fondi alla scuola sia equivalsa a darsi la zappa sui piedi, tanto più in un'epoca come quella contemporanea in cui la competizione internazionale si gioca proprio sul progresso del capitale umano. L'arrivo della pandemia, in questo senso, ha soltanto reso ancora più evidente quanto sia stato insensato tagliare, e pesantemente, proprio le risorse che ci avrebbero aiutato a uscire dall'emergenza pandemica.
Portando poi l'attenzione su un piano più ristretto e individuale, Bianchi illustra molto bene la correlazione diretta tra titoli di studio e reddito, con particolare attenzione al divario Nord-Sud. Sono assai utili anche le letture incrociate dei dati Invalsi, della situazione dei Neet e degli abbandoni scolastici.
A complemento dell'analisi generale, Bianchi offre anche proposte concrete sull'architettura complessiva della scuola. Qui forse si vede come lui vi arrivi non dalla pedagogia ma dagli studi econometrici, e qualche genericità gli sfugge (sfiora anche lui, ma solo en passant, il luogo comune del «non servono le nozioni, c'è internet»). Tra le proposte discusse c'è anche il taglio di un anno di scuola superiore. Io al riguardo non sono entusiasta, poiché preferirei piuttosto una revisione dei cicli secondo lo schema proposto dal Manifesto di Condorcet. Questo, pur non escludendo l'idea del taglio, preferisce concentrarsi su aspetti più urgenti, come la continuità verticale e il problema delle bocciature.
Bianchi propone poi il rafforzamento della formazione professionale in capo alle regioni (Iefp) come antidoto all'abbandono scolastico. Bianchi correttamente distingue tra istituti professionali (statali) e formazione regionale, assegnando principalmente a quest'ultima l'idea di «recupero» dell'abbandono, laddove per la formazione professionale «tradizionale» sostiene la necessità di accrescerne il prestigio, anche dando finalmente sviluppo e stabilità al prosieguo para-universitario della formazione professionale, con gli Its modellati sull'esempio tedesco. Tale impostazione è assai condivisibile, perché corregge il «licealismo» dell'istruzione italiana, ma per quanto riguarda la Iefp potrebbe essere meglio impostare il discorso andando oltre la pur fondamentale lotta all'abbandono e inserirla nella questione più generale della formazione continua degli adulti, in Italia largamente trascurata e che non riguarda solo chi a scuola non ce la fa, ma tutti i lavoratori di qualsiasi tipo.
Al di là di queste osservazioni, del libro si possono sottolineare alcuni ulteriori pregi, tra cui i sintetici ma utili accenni al ruolo della cultura umanistica nell'istruzione contemporanea. Sia pure in maniera rapida, infatti, viene ribadita l'importanza della cultura umanistica ai fini di un'efficace auto-espressione. È una cosa che può sembrare ovvia, ma va già al di là del piatto luogo comune sulle materie letterarie (tipicamente liceali) che offrirebbero genericamente un grande «senso critico». Io mi permetterei di ampliare questa riflessione ricordando quanto una solida cultura umanistica sia anche, in realtà, un efficace fattore di sviluppo in senso «diretto». I fatturati di Hollywood sono là a ricordarcelo, e se un'industria culturale come Netflix deve la sua esistenza al progresso tecnologico, è anche vero che i suoi profitti li deve alla bravura dei suoi sceneggiatori.
In conclusione, il libro è un contributo molto importante alla riflessione sullo stato dell'istruzione in Italia, cui fornisce dati precisi e riflessioni meditate, ingredienti di cui il dibattito pubblico ha estremo bisogno.
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