Dimostra più dei suoi ventisei anni, gli occhi lucidi e stanchi, il viso scavato, un seno che le esce dalla giacca e da cui succhia avida una bambina invece bellissima e paffuta.
Si chiama Tatiana, è arrivata dalla Romania quattro anni fa, con il marito e un bambino appena nato che ora le corre intorno, biondo e vivace. Passano molto tempo, lei e i bambini, sulle panchine di Piazza dell’Unità: una piazza di Bologna non troppo periferica, ma che raccoglie un’umanità varia e per lo più marginale – vecchi signori del quartiere stretti nei loro paletot un po’ sdruciti e ragazzi dell’Est Europa alti come palazzi, che ti immagini fino a un momento prima abbiano costruito palazzi, appunto, e che invece hanno un paio di bottiglie di birra vuote ai piedi, alle 10 di mattina. E poi qualche ragazzino di origine nordafricana che ha saltato la scuola, e sta in circolo con altri a fumare e ridere forte, e alcune mamme, come Tatiana e come me, che vanno in uno spiazzo di cemento con qualche gioco perché i parchi scarseggiano, in questa fetta di città. Entrambe con i nostri primogeniti, che iniziano a giocare insieme grazie alla comune passione per le macchinine, e con le secondogenite che hanno nomi quasi uguali, Viola la mia, Violeta la sua.
Io tornerò al mio lavoro fra poco, Tatiana no. Lavorava come badante dieci ore al giorno assistendo una signora anziana non più autosufficiente ma leggera come una farfalla, mi dice, per cui lavarla o spostarla dal letto alla sedia a rotelle non era troppo faticoso. Almeno finché la pancia non ha cominciato a crescere. Non era previsto ma era felice, Tatiana, sognava di avere una bambina. Però sollevare la signora, seppur del peso di una farfalla, non poteva più farlo, e neppure le notti in ospedale che talvolta le capitava di trovare con il passaparola. Tutto in nero, tutte persone oneste e gentili, che la pagavano sempre regolarmente e che a Natale le regalavano anche i cioccolatini.
Da quando Violeta è nata, Tatiana ha cercato ore di pulizia o assistenza, ma senza troppa convinzione, perché non sa a chi lasciare la bambina, e neppure «il grande», che grande poi non è, e che fino a qualche mese fa era affidato a una connazionale, che lo badava insieme con una signora che «non c’era più con la testa», il cui figlio lavorava negli Stati Uniti e tornava solo qualche volta l’anno, ovviamente senza trovare un bambino sconosciuto in casa sua. Poi la signora è morta, «meglio così per tutti, era una brutta situazione».
Ma i servizi sociali, la scuola…?, balbetto. Tatiana scuote la testa, dice che non sa, che non si fida, che meno è in vista meglio è. C’è e non c’è, e quando c’è è come se non ci fosse, non credo rientri in qualche statistica. A partorire è tornata a casa, tanto da cittadina comunitaria può fare avanti e indietro tutte le volte che vuole. E forse tra poco tornerà a casa del tutto, perché qui è troppo difficile lavorare, crescere i bambini… A casa ci sono sua madre, le sue sorelle, le sue zie. Un lavoro no, però «ora sono tanto sola e stanca e facciamo fatica in quattro con quello che guadagna mio marito… ne vale la pena?».
Mentre apro le labbra per risponderle che non lo so, lei mi saluta stringendomi un braccio. Rimette Violeta nella carrozzina, e nel frattempo «il grande» la raggiunge subito, senza bisogno di essere chiamato; si avviano veloci, verso dove non so.
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