Dopo la pausa della pandemia si ha l’impressione che Milano stia correndo in avanti senza che ci sia un vero controllo su quanto sta accadendo. Una corsa a perdifiato che rischia di trasformare la città in un luogo dove può vivere solo chi si può permettere un alto tenore di vita. Qualche esempio.
A una cena, un ex funzionario della Banca d’Italia, in città per una serie di cure mediche prolungate, mi dice che, a fatica, è riuscito ad affittare in zona centrale (non centralissima) un bilocale per 2.500 euro al mese. Qualche tempo dopo incontro un amico, imprenditore agricolo, milanese ma che ha i suoi interessi tra Lombardia e Piemonte e che torna in città per il weekend, costretto a lasciare il proprio appartamento in affitto vicino al nuovo quartiere di Citylife (ex Fiera) di fronte a una richiesta di raddoppio del canone. Potrei continuare.
Passeggiando per il centro, mi imbatto in una nuova grande piazza tra corso Venezia e via Sant’Andrea, negli spazi del seminario vescovile. È molto bella ma ha un’aria esclusiva: l’ha voluta Ferragamo per il suo nuovo albergo, naturalmente a cinque stelle. Un tempo qui c’erano gli studi di Sottsass e Bellini che si mescolavano a botteghe di ogni tipo, poi la piazza rimase chiusa per molti anni. Per chi volesse qualcosa di più esclusivo delle 73 stanze del Portrait Milano (questo il nome dell’albergo), può raggiungere, a qualche centinaio di metri, dopo aver fatto un cenno al portiere gallonato, Casa Cipriani, club privato con residenza, dove alcune delle sedici stanze si affacciano sui Giardini Indro Montanelli che i milanesi hanno continuato a chiamare Giardini Pubblici.
Una delle poche, pochissime, voci critiche sulla traiettoria di una città governata da più di dieci anni dal centrosinistra
È proprio il rapporto tra pubblico e privato il filo rosso di L’invenzione di Milano. Culto della comunicazione e politiche urbane (Cronopio), un pamphlet di Lucia Tozzi – studiosa di urbanistica, napoletana di origine ma milanese di residenza – dedicato al mito del «Modello Milano», a quell’idea di città virtuosa, locomotiva d’Italia, che ha preso piede con Expo 2015 e che, dopo la battuta d’arresto della pandemia, ha ripreso a circolare con ancora maggior vigore. Il libro appare nella collana «Rasoi» e bisogna dire che è bello affilato, anche per l’abilità dell’autrice di mescolare osservazione di costume a una ricerca rigorosa con ampi riferimenti bibliografici e la capacità di estrapolare dalle cronache cittadine fatti e dati salienti. Uno stile che ricorda un modello lontano, difficile da maneggiare, quello di Antonio e Camilla Cederna (pur con le dovute differenze), ma sempre efficace. È un’opera che mancava ed è quindi da leggere con attenzione, da discutere e che sviluppa le tesi contenute in Non ci sono alternative, un lungo articolo dell’autrice apparso nel 2019 nella bella rivista napoletana «Lo stato delle città». Da leggere perché è una delle poche, pochissime, voci critiche sulla traiettoria di una città governata da più di dieci anni dal centrosinistra che, attraverso i sindaci Pisapia e Sala, è sempre stata attenta a comunicare (verbo chiave) un’idea di città virtuosa, avendo tra le sue priorità le politiche di inclusione e il riconoscimento dei diritti delle minoranze.
In una didascalia de Il maschio e la femmina (1966), Jean-Luc Godard scriveva che «la pubblicità è il fascismo del nostro tempo», una frase che mi è tornata in mente leggendo gli esempi citati dalla Tozzi nell’uso della comunicazione da parte degli investitori privati che ammantano di parole rispettose verso l’ambiente – la pratica del greenwashing, l’ambientalismo di facciata, oggi indispensabile per ogni intervento urbano – nonché la sostenibilità dei loro progetti. Anche il Comune di Milano ha imparato a comunicare nei modi della contemporaneità, a utilizzare i social per costruire il proprio consenso (lo fa perfino, a volte in maniera un po’ goffa, il sindaco Sala, attratto dalle possibilità della disintermediazione). L’idea di fondo – bisognerebbe utilizzare il termine «ideologia» se ci fosse un’elaborazione di pensiero ma non mi pare ci sia – è di presentare Milano come uno dei nodi della globalizzazione, una città per vocazione internazionale, capace di competere, nell’attrarre capitale e lavoro, con la parte migliore del mondo occidentale, e per questo sempre attenta a promuovere la qualità della vita attraverso gli strumenti più visibili che l’amministrazione comunale ha a disposizione come piste ciclabili, la dissuasione all’utilizzo dell’automobile (la battaglia contro la cattiva qualità dell’aria prosegue, con alterne fortune, dai tempi dell’abate Parini), l’incremento delle aree verdi attraverso iniziative specifiche come Forestami, un progetto che ha l’ambizione di piantare tre milioni di alberi nell’area metropolitana entro il 2030.
Milano, sul modello delle grandi città straniere, ha un’agenzia di marketing, YesMilano, ma la promozione internazionale della città è nata in maniera spontanea con il FuoriSalone, la settimana nel mese di aprile che, sotto l’insegna onnicomprensiva del design, attrae circa 400.000 visitatori e divenuta, negli ultimi quindici anni, un modo di far conoscere la città nei suoi quartieri semicentrali o periferici, innescando così un processo di valorizzazione e conseguente gentrificazione di varie aree. La più nota attualmente è NoLo (North of Loreto), la prossima dovrebbe essere quella che si sviluppa attorno alla Fondazione Prada (Porta Romana-Corvetto). È stata proprio l’arte contemporanea a fissare i limiti della Milano di oggi, compresa tra l’Hangar Bicocca e la Fondazione Prada nell’asse da nord a sud, mentre si potrebbe ipotizzare che da ovest a est i limiti siano CityLife da un lato, Lambrate dall’altro. In questo quadrante, molto più allargato rispetto solo a dieci anni fa, si gioca il futuro della città.
Milano è la città italiana dove è nato il cittadino-consumatore e la Tozzi ha buon gioco a descrivere il popolo dello spritz, gli accaniti del sushi, le famiglie ossessionate dal chilometro zero, tutti sempre alla ricerca di novità da consumare. Evidenzia la fragilità della proposta degli spazi che il Comune ha affidato, dopo regolare bando, ad associazioni culturali. Luoghi come la Fabbrica del Vapore o Base che hanno il loro centro di aggregazione nei rispettivi bar. Per lungo tempo ha agito in città lo spettro del Leoncavallo, il centro sociale frequentato anche da Salvini in gioventù, simbolo di una cultura antagonista al capitale. Oggi, scrive la Tozzi, anche la cultura alternativa, le tribù urbane, i writers, sono divenuti strumenti di attrazione per offrire un’immagine vibrante a quartieri in cerca di nuova identità. C’è un po’ di caricatura in queste descrizioni: un buon numero di cittadini vive in modo morigerato, manda i figli all’oratorio, riempie le sue domeniche con divertimenti semplici e cerca di sottrarsi alle trappole del consumo. È la parte meno visibile della città, oggi anche interessata da flussi turistici in continua crescita e che ne modificano gli assetti commerciali, quella più difficile da scandagliare. Ma un pamphlet per statuto non è un libro analitico, è semmai una fotografia di una situazione in movimento, qualche parte resterà inevitabilmente sfuocata.
Bene individuate sono le traiettorie urbanistiche, con i grandi gruppi immobiliari internazionali (l’epoca di Ligresti appare preistoria) che oggi dettano le regole, pagando al Comune oneri di urbanizzazione molto più bassi se paragonati ad altre città europee. Aggiornare le regole a un mercato divenuto globale, dare un vero senso all’edilizia sociale oggi chiamata tra fraintendimenti housing, mi pare tra i compiti più urgenti che ha di fronte a sé l’amministrazione comunale, che pure all’interno della sua «macchina» dispone di funzionari competenti. Il problema è che le cose non sembrano andare così.
L’espressione chiave degli ultimi 15 anni è «rigenerazione urbana», ma nei casi più macroscopici – Citylife e l’area ex Varesine (attorno a piazza Aulenti) – gli accordi tra grandi immobiliaristi e Comune pendono a favore dei primi. I parchi urbani nati per l’occasione sono a disposizione di tutti ma hanno l’aria di essere elargizioni magnanime da parte dei soggetti privati. Non ci sono accordi segreti: «Meglio sopra il tavolo che sotto il tavolo», è un’espressione di Luigi Mazza, decano della categoria, per definire le pratiche urbanistiche milanesi. La più importante partita in corso è sulle aree degli scali ferroviari. In questo momento il Comune, secondo la Tozzi, è in posizione subalterna rispetto agli interessi dei privati, ma l’ampiezza dell’operazione non può accontentarsi di termini come housing sociale o mixité per garantire un futuro equilibrato alla città. Il semifallimento dell’edilizia sociale, la difficoltà di gestione delle case Aler, hanno reso questa strada in apparenza conveniente per tutti, ma è molto difficile delegare ai privati la gestione dell’edilizia pubblica. Quali categorie saranno privilegiate? Chi sono gli studenti a cui sono destinati questi alloggi? Da che famiglie provengono?
Nel libro è riportata un’affermazione di Manfredi Catella: «Lo spazio urbano è di per sé un bene comune. Questa verità viene prima di qualunque distinzione tra "proprietà pubblica" e "proprietà privata"». Eh, no. Qui si confondono i piani tra pubblico e privato, per non parlare di tutta una serie di altri soggetti (cooperative, enti religiosi), ognuno col proprio carico di interessi. È tempo di fermarsi e procedere a un’attenta verifica delle regole del gioco, divenuto una pratica globale praticata su scala locale. Il caso dello stadio di San Siro, di proprietà del Comune di Milano, che si vorrebbe abbattere (con infiniti problemi ecologici legati allo smaltimento dei rifiuti), per costruire uno o due stadi di proprietà delle società, è la cartina di tornasole, non solo delle scelte amministrative, ma dell’orientamento dell’opinione pubblica di tutti gli schieramenti. Sta passando l’idea che una squadra (in questo caso due), ma quindi un’intera città, può essere competitiva solo se lo stadio appartiene ai privati che così possono sviluppare un modello di business vincente e riqualificare le aree attorno allo stadio, sia che si rifaccia San Siro, sia che si proceda con nuove costruzioni.
È tempo di fermarsi e procedere a un’attenta verifica delle regole del gioco, divenuto una pratica globale praticata su scala locale
Se Milano diventa una città per ricchi ed espelle, oltre alle classi popolari, la parte più debole del ceto medio, non conviene a nessuno. Le città si regolano sull’equilibrio tra le diverse parti, lo sappiamo dai tempi di Menenio Agrippa, se no rischiano di diventare, come scrive la Tozzi, più vuote e noiose. Ma forse è meglio pensare al futuro di Francesco «nato a Milano», come scrive l’autrice in exergo. Se crescerà in una città dove gli squilibri sociali diventeranno sempre più evidenti, sarà più complicato per lui diventare un buon cittadino e questo è un problema che riguarda tutti noi.
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