È un messaggio nella bottiglia quello che Willy Schwarz (1906-1989) manda dall’Italia nell’autunno del 1943 al fratello Franco, emigrato negli Stati Uniti nel 1940. La stretta per i cittadini italiani di origine ebraica era cominciata nel 1938 con le leggi razziali, ma dopo l’8 settembre la situazione precipita e comincia un periodo tragico per tutti gli ebrei italiani. È qui l’origine di “Mio amatissimo fratello...”. Fuga da Milano (1943-1945), appena uscito, con le assidue cure di Sandro Gerbi, per Casagrande.

Gerbi, grande conoscitore di questi temi, è stato incaricato dalle tre figlie di Schwarz, un pediatra che ancora molti a Milano ricordano, di ricostruire attraverso i documenti personali (lettere, fotografie) le vicende di una famiglia ben inserita nella comunità ebraica milanese e, fino al 1938, nella vita sociale della città. Si dirà che le testimonianze che si sono accumulate nel corso degli ultimi decenni rischiano di offuscare il valore di novità di questo libro, eppure, specialmente la prima lettera, venti pagine scritte a macchina con data 25 ottobre 1943, ha un carattere di eccezionalità. Schwarz ha l’urgenza di comunicare al fratello Franco non solo il destino dei singoli membri della famiglia, ma più in generale di far comprendere, a lui che vive dall’altra parte dell’Oceano, il clima di incertezza che si respira a Milano in quelle giornate dopo la dissoluzione del fascismo e l’Armistizio. C’è un motivo cogente che spinge Willy a scrivere al fratello: comunicargli il suicidio del padre Gustavo che non ha retto la tensione dopo il tentativo non riuscito di oltrepassare il confine con la Svizzera. Enea non è riuscito a portare in salvo Anchise.

Schwarz ha l’urgenza di comunicare al fratello Franco non solo il destino dei singoli membri della famiglia, ma più in generale di far comprendere, a lui che vive dall’altra parte dell’Oceano, il clima di incertezza che si respira a Milano in quelle giornate

Le condizioni di vita della famiglia erano rimaste “praticamente normali” fino all’ottobre del 1942, quando i bombardamenti su Milano cambiano la situazione e segnano l’inizio dello sfollamento per chi ha i mezzi o i contatti per farlo. Anche gli Schwarz, un po’ alla volta, lasciano la città. I continui allarmi aerei mettono alla prova i nervi di tutti, anche se la vita della città cerca di proseguire adattandosi alle circostanze: alla Scala lo spettacolo comincia alle 17 per poter essere a casa prima del coprifuoco. I servizi di trasporto funzionano e la quotidianità è perseguita ostinatamente da tutti. Si susseguono le voci mentre le crepe del Regime si fanno sempre più evidenti, anche se nessuno, o quasi, lo mette in discussione. Il 25 luglio arriva come una sorpresa. Si compie qualche rappresaglia contro i principali criminali fascisti, ma il clima rimane di incertezza per tutto il periodo fino all’8 settembre.

Lo choc sono i bombardamenti Alleati di metà agosto 1943 che devastano Milano. Scrive Schwarz: “La città non potrà mai più essere quella di prima” e poi racconta in dettaglio i danni arrecati dalle bombe nelle diverse aree. “Per giorni e giorni gli incendi divamparono o serpeggiarono, e da un giorno all’altro oltre 300 mila cittadini rimasero più o meno completamente privi di alloggio!”. Gli è chiaro che gli obiettivi militari raggiunti sono poca cosa rispetto allo sfacelo dei beni civili, religiosi e culturali. E non giustifica gli Alleati. La popolazione riprende con molta lentezza a vivere ma non si ribella a Badoglio. Schwarz condanna la propaganda che si fa da ogni parte, compresa quella di Radio Londra, perché disorienta una popolazione già provata da bombardamenti, difficoltà di rifornimenti, complicazione di ogni genere. Con l’Armistizio tutto diventa ancora più difficile: nei primi giorni c’è uno sbandamento generale, un “si salvi chi può”. La famiglia Schwarz vive a pochi chilometri dal confine svizzero e vede passare interi reparti che guadagnano la Svizzera.

Schwarz condanna la propaganda che si fa da ogni parte, compresa quella di Radio Londra, perché disorienta una popolazione già provata da bombardamenti, difficoltà di rifornimenti, complicazione di ogni genere

A Willy pare “uno spettacolo disgustoso”, perché, almeno all’inizio, non aveva nessuna funzione antitedesca: “Era, soprattutto, un segno di stanchezza, di paura, di quel ‘menefreghismo’, che fu il più vero e velenoso frutto di vent’anni di fascismo”. Per i giovani, cresciuti nel clima del fascismo, “l’indifferenza patriottica e politica è assoluta”. Dopo l’8 settembre la popolazione sembra ancora più rassegnata. Il fascismo della Repubblica Sociale non ha attecchito ma – Willy completa la prima lettera nel novembre 1943 – reazioni per ora non se ne vedono. Anche in famiglia il padre è sempre più depresso, mentre la madre reagisce con forza, anche dopo il suicidio del marito riesce a essere il punto di riferimento dell’intera famiglia. La lettera si conclude dando informazioni dei parenti dei quali ha notizia, tra i quali Eugenio Colorni che ora non è più a Ventotene ma è stato trasferito a Melfi.

Willy riesce a raggiungere la Svizzera nel marzo 1944 da dove scrive una seconda lettera a Franco. Nel frattempo è stato nascosto nel seminario arcivescovile di Venegono Inferiore, mentre la madre si è rifugiata in una casa religiosa entrando a far parte, pochi mesi dopo, della Chiesa cattolica. I parenti si dividono tra Italia e Svizzera più per caso che per scelta. La lettera è terminata e spedita a guerra finita, così come l’ultima lettera porta la data 27 agosto 1945: Willy ha potuto riabbracciare la moglie e le tre figlie rimaste in Italia. Descrive le condizioni di Milano, animatissima nonostante le distruzioni. Aggiorna il fratello sulle sorti di amici e conoscenti: morti in Germania gli architetti Banfi e Pagano, deceduti in combattimento Filippo Beltrami, Giorgio Latis, Manlio e Nino Castiglioni.

“Il prezzo di vite umane preziose è stato altissimo, e ci si chiede con angoscia se ora si saprà essere degni di tanti sacrifici e procedere verso una vera ricostruzione del nostro Paese, incredibilmente devastato e sconvolto, in tutti i sensi”. A Schwarz non sfugge che gli italiani, per poter ricominciare a vivere, devono fare un esame di coscienza. L’impellenza della Guerra fredda rimandò per sempre quell’esame. Per parte sua tornò alla professione di pediatra e abbracciò l’antroposofia. Willy Schwarz fu un uomo all’altezza dei tempi terribili in cui gli toccò vivere.