Michele Taruffo è stato un grande giurista. Il diritto processuale civile era la sua materia, ma è stato capace di muoversi fra la filosofia, l’epistemologia, le teorie della probabilità, la teoria del ragionamento, il diritto comparato e altro ancora.

La teoria della prova giuridica è stato il suo principale oggetto di studio e riflessione. In questo settore ha lasciato i contributi più importanti. Il suo lavoro è memorabile per almeno quattro motivi: 1) ha rivitalizzato, in Italia e altrove, un settore di studio lasciato altrimenti alla prassi, dato che nella formazione tradizionale dei giuristi si investe molto tempo nelle questioni normative e si considerano assai meno quelle fattuali e probatorie, demandate al tribunale della prassi di futuri giudici e avvocati; 2) ha ripreso e innovato la tradizione «razionalista» della valutazione probatoria, già difesa da William Twining e altri in ambito angloamericano e adottata da Taruffo per arginare le interpretazioni soggettivistiche del «libero convincimento» nella valutazione delle prove, considerato che tali interpretazioni finiscono col legittimare le decisioni più arbitrarie sui fatti di una controversia giuridica; 3) ha adottato in tale settore gli strumenti e lo stile della filosofia analitica, coltivando la chiarezza del dettato, le opportune distinzioni e il rigore degli argomenti, non mancando di criticare colleghi e magistrati ogniqualvolta le loro argomentazioni gli apparissero oscure o confuse; 4) ha costruito numerosi ponti fra la nostra letteratura e quella di altri Paesi, muovendosi con facilità fra più lingue e tradizioni giuridiche, notando i problemi dell’uno o dell’altro contesto, e suggerendo le soluzioni che solo una visione comparata è in grado di offrire.

Nel 1975 Taruffo pubblicò La motivazione della sentenza civile (Cedam): fu un lavoro in grado di consacrarlo come studioso di punta e attirare l’attenzione sull’importanza del tema, affrontato sia in prospettiva storica sia in quella teorica, con dovizia di riferimenti e argomentazioni. È una conquista della nostra civiltà giuridica che ai giudici, non solo penali ma anche civili, sia richiesta una motivazione delle decisioni, che cioè i giudicanti abbiano l’onere di indicare e rendere pubbliche le ragioni delle decisioni prese. Infatti la «motivazione» non va intesa come resoconto psicologico del modo in cui i giudici sono pervenuti a una determinata decisione, bensì come «giustificazione» logica e giuridica della decisione. Solo in questo senso è possibile vagliare e criticare una decisione. È un tema su cui Taruffo da allora non ha mai cessato di insistere, pure negli ultimi anni quando, dopo il depotenziamento dell’obbligo di motivazione in ambito civile operato dal legislatore nel 2012, anche la Cassazione ha contribuito a questo trend deflazionista delimitando il controllo della motivazione e rendendo così più discrezionale il giudizio sui fatti di causa. L’opposto di ciò che raccomanda di fare la tradizione razionalista della valutazione probatoria.

Un lavoro fondamentale fu pubblicato nel 1992, La prova dei fatti giuridici (Giuffrè), dove Taruffo apriva le danze riabilitando il ruolo della verità nel processo civile e criticando la distinzione tra verità formale (quanto deciso dai giudici) e verità materiale (quella relativa ai fatti). «In particolare», scriveva Taruffo, «sembra insostenibile l’idea di una verità giudiziaria che sia completamente "diversa" e autonoma per il solo fatto che viene accertata nel processo e per mezzo delle prove; l’esistenza di regole giuridiche e di limiti di varia natura serve al più per escludere la possibilità di conseguire verità assolute, ma non basta a differenziare totalmente la verità che si stabilisce nel processo da quella di cui si parla fuori del processo» (p. 4). «Ma non c’è neanche una verità materiale», aggiungeva, «se con ciò si intende una verità "assoluta"». Il tema ritornerà in uno dei suoi ultimi lavori, La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti (Laterza 2009), in cui Taruffo approfondisce il tema delle «narrazioni processuali», dei loro autori (avvocati, testimoni, giudici), delle loro virtù e delle loro fallacie, sullo sfondo di una concezione del processo come orientato alla determinazione della verità, dopo l’«ubriacatura postmoderna», per quanto possibile sotto il profilo epistemico e quanto lecito sotto il profilo giuridico.

Nel resto del volume del 1992, tornando ai lavori precedenti, Taruffo esaminava la varietà di fatti giuridici che occorre provare in giudizio; ne faceva seguire una discussione delle teorie della verosimiglianza e della probabilità con cui si supportano le ricostruzioni fattuali e concludeva con un esame delle principali norme che governano, nel nostro Paese ma non solo, l’ammissione, l’assunzione e la valutazione delle prove.

In un successivo volume, Sui confini (il Mulino 2002), erano dispiegate le sue numerose conoscenze sulle dimensioni transculturali della giustizia civile, i diversi sistemi di giustizia, la dimensione transnazionale delle controversie civili, la funzione delle prove, le massime d’esperienza e il ricorso processuale alla scienza, per terminare con il tema poco frequentato dei «giudizi prognostici», ossia i pronunciamenti giudiziali basati sulla previsione di eventi (un esempio sono i provvedimenti cautelari). In un capitolo centrale del libro, Taruffo esponeva le sue «Idee per una teoria della decisione giusta», indicandone tre condizioni essenziali: «a) correttezza della scelta e dell’interpretazione della regola giuridica applicabile al caso; b) accertamento attendibile dei fatti rilevanti del caso; c) impiego di un procedimento valido e giusto per giungere alla decisione» (p. 224). Nella discussione sull’accertamento «attendibile» tornava ovviamente il tema della verità.

Taruffo approfondiva la sua conoscenza del dibattito angloamericano e stringeva molte relazioni con l’accademia statunitense nel corso degli anni Novanta, interessandosi a questioni epistemologiche non meno che a temi giuridici. È significativo un suo intervento del 2003, Rethinking the Standards of Proof, sul prestigioso «American Journal of Comparative Law», dove in risposta a un articolo critico di colleghi americani osservava le differenze fra i modi in cui, nei sistemi di civil law e di common law, si valutano le prove e prendono decisioni in punto di fatto. Taruffo mostrava come dal lato statunitense ci fosse una certa incomprensione del funzionamento dei sistemi continentali, spesso ridotti a caricature.

Il tema degli standard di prova assumeva un rilievo particolare negli anni a venire, in cui fra le altre cose, a seguito della traduzione in lingua spagnola di alcuni suoi lavori, Taruffo intensificava i suoi rapporti con l’America Latina e diveniva un punto di riferimento imprescindibile per generazioni di studiosi del ragionamento probatorio e della comparazione fra diversi sistemi di giustizia. Taruffo aveva occasione di notare, per quanto ci riguarda, come in Italia mancasse un’adeguata riflessione sugli standard probatori, specie in ambito civile, dove la prassi giudiziale è piuttosto reticente in merito alle soglie di prova che occorre raggiungere per considerare provata una pretesa fattuale, con il risultato aberrante che le decisioni appaiono infallibili in quanto non criticabili.

Del gennaio 2020 è infine la raccolta Verso la decisione giusta (Giappichelli), che riunisce numerosi contributi degli ultimi anni e testimonia ancora come Taruffo avesse a cuore il tema della giustizia delle decisioni giudiziali. Legalità, verità e giustizia erano per lui parole chiave.

Molti degli scritti di Taruffo sono stati tradotti in altre lingue. Altri lavori qui non ricordati erano noti e ampiamente usati (specie il Commentario breve al Codice di procedura civile, in varie edizioni curate con Federico Carpi). Taruffo era internazionalmente noto e apprezzato. L’Università di Pavia era la sua alma mater, da studente prima e docente poi per tanti anni. Taruffo è stato anche visiting professor in numerose Università, negli Stati Uniti e in America Latina specialmente, ma anche in Cina e naturalmente in Europa. Negli ultimi anni aveva trascorso diversi periodi all’Università di Girona in Catalogna, dove fiorisce lo studio del ragionamento probatorio grazie al gruppo diretto da Jordi Ferrer. Il numero dei suoi interventi e delle conferenze cui partecipava è straordinario, a testimoniare una vitalità e una tenacia non comuni.

Piace ricordarlo come generoso verso i più giovani, sempre attento alle cose che gli capitavano sottomano, interessato ai nuovi approcci della letteratura e a nuovi problemi, con un tratto nobile e orgoglioso nella professione come nella vita.