È difficile ricordare una personalità la cui morte sia stata salutata da una quantità di parole paragonabile a quelle spese per la scomparsa di Michail Sergeevič Gorbačëv. Per gli ex-cittadini degli Stati socialisti, sia in Russia sia nell’Europa centro-orientale, Gorbačëv è colui che ne ha rivoluzionato le esistenze dando loro la libertà di parola e di movimento. Gli studiosi di relazioni internazionali sottolineano la sua “grandezza”: più di ogni altro leader mondiale fece recedere il pericolo di guerra nucleare, riacutizzatosi all’inizio degli anni Ottanta, spingendo per un trattato sulla riduzione dei missili balistici di corta e media gittata firmato con Reagan nel 1987 (e ricusato da Trump nel 2018, un atto contro cui Gorbačëv scrisse un amaro editoriale) e per la Carta di Parigi che sancì la fine della Guerra fredda. L’abbandono della “dottrina Brežnev” che limitava la sovranità dei Paesi satelliti rese possibili le rivoluzioni pacifiche e la caduta dei regimi comunisti in Europa centro-orientale nel 1989 e, in definitiva, la creazione di un’Unione europea di Stati democratici che comprendesse anche quella parte del continente.
Fra i detrattori dell’ultimo segretario generale non ci sono però solo i russi nostalgici della potenza sovietica o traumatizzati dagli anni della recessione economica (alle uniche elezioni cui Gorbačëv partecipò, quelle presidenziali russe del 1996, prese lo 0,5% dei voti). Anne Applebaum, ad esempio, ha firmato un duro giudizio: Gorbačëv non si era “prefissato di […] promuovere la libertà”, non ha capito nulla dei processi che ha messo in moto, ragionava secondo rozzi schemi leninisti, e deve la sua buona fama, afferma Applebaum, solo per ciò che non ha fatto, ovvero non usare la macchina repressiva sovietica ai suoi ordini per arginare la perdita dell’impero. E nemmeno sempre: sangue fu versato in Urss tra il 1986 e il 1991, in particolare quello dei manifestanti per l’indipendenza della Georgia, della Lituania e della Lettonia, oltre alla repressione in Azerbaijan nel 1990, che fu anche un tentativo fallito di sedare le violenze tra armeni e azeri (ma non sono emerse prove documentarie che Gorbačëv avesse dato ordini chiari, in tutti questi episodi).
Il fenomeno Gorbačëv, quello di un leninista che smantellò lo stato leniniano e quello di un democratizzatore che non provò mai a farsi eleggere, era misterioso. Gorbačëv si ritrovò alla testa del partito che con l’esercizio sistematico della violenza aveva tenuto il potere e trasformato le variegate società sovietiche. Come aveva potuto finire per essere guidato da qualcuno che alla violenza rinunciava per principio? Stephen Kotkin ha messo in evidenza il paradosso centrale: proprio perché credeva nel socialismo e nella sua riformabilità, Gorbačëv avviò un processo che avrebbe portato a una crisi senza uscita e al crollo dell’Urss. A parole, rimase sempre fedele a un Lenin immaginario, il Lenin umanitario dell’ideologia ufficiale sovietica del dopo-Stalin. La fiducia nella possibilità di un “socialismo dal volto umano” rinnovava il tentativo intrapreso, tra gli altri, durante la primavera di Praga, dal suo amico Zdeněk Mlynář, di cui era stato compagno di studi alla facoltà di legge a Mosca nei primi anni Cinquanta. Un idealismo ben diverso dal duro realismo di un Deng Xiaoping, che era stato uno dei più spietati luogotenenti di Mao. Come riporta il suo biografo, secondo il figlio di Deng l’anziano leader cinese pensava che Gorbačëv fosse “un idiota”. È innegabile che la strada riformista di Deng – dittatura politica del partito e apertura al mercato con i settori strategici dell’economia saldamente controllati dallo Stato – fosse molto più leninista (il Lenin della Nep) del progetto di Gorbačëv. Quest’ultimo, pur professando fino alla fine la fede nel nume tutelare del bolscevismo, si lanciò invece in una direzione di apertura della sfera pubblica e di parziale democratizzazione del partito che aveva molto più a che fare con la cultura del dissenso. Andrej Sacharov, che Gorbačëv liberò dal confino interno nel 1986, in Progresso, coesistenza e libertà intellettuale (1968)aveva fatto ai dirigenti sovietici una serie di proposte che verranno pressoché tutte messe in atto da Gorbačëv: consolidare la coesistenza pacifica e la collaborazione con l’Occidente; porre termine alla censura e promuovere l’informazione su una società sovietica che era opaca per tutti i suoi membri, compresi i vertici del partito; rispettare i diritti dell’uomo; liberare i prigionieri politici; portare fino in fondo la denuncia di Stalin marginalizzando i neostalinisti; riformare l’economia.
Il retroterra di Gorbačëv era ben diverso da quello dei suoi predecessori, non solo perché fu il primo leader sovietico ad essere diventato adulto dopo la Seconda guerra mondiale e a non aver mai nemmeno fatto il servizio militare
Gorbačëv andò ben oltre. Prima introducendo una parziale ma fondamentale democratizzazione nella primavera del 1989 (anche Sacharov fu eletto al nuovo Congresso dei deputati del popolo dell’Urss), e abolendo il monopolio politico del partito l’anno successivo. Come scrisse nel suo diario nel 1989 Anatolij Černjaev, strettissimo collaboratore di Gorbačëv: “è in corso un totale smantellamento del socialismo come fenomeno di sviluppo mondiale... E forse questo è inevitabile e positivo. [...] E questo processo è stato avviato da un tizio ordinario di Stavropol’.” Nonostante la sua “ordinarietà”, il retroterra di Gorbačëv era ben diverso da quello dei suoi predecessori al posto di segretario generale, non solo perché fu il primo leader sovietico ad essere diventato adulto dopo la Seconda guerra mondiale e a non aver mai nemmeno fatto il servizio militare. Insieme al meteorico e decrepito Černenko, Gorbačëv fu anche il solo segretario generale del Partito comunista dell’Urss di origine contadina. Nato nel 1931 durante la violentissima campagna di collettivizzazione totale, mentre i suoi parenti venivano deportati e morivano di fame nelle nuove fattorie collettive, fino agli anni dell’università Gorbačëv aveva lavorato ogni estate nei campi con suo padre, guidando una trebbiatrice. La sua condanna dello stalinismo (un termine cui paradossalmente negò legittimità, considerandolo “un concetto inventato dagli avversari del comunismo e […] utilizzato per denigrare l’Urss”) si basava anche sui traumi vissuti dalla propria famiglia, così come il giudizio sprezzante sull’organizzazione della produzione nelle fattorie collettive, un sistema che però non riuscì mai a riformare una volta al potere.
Sebbene fosse figlio di una madre ucraina e sposato a una donna, Raisa Titarenko, i cui genitori erano ucraini emigrati in Siberia, Gorbačëv fu anche il segretario generale che meno di tutti i suoi predecessori aveva fatto esperienza fuori dalla Russia, la cui cultura tendeva ad identificare con quella sovietica. Dopo la giovinezza nella regione di Stavropol’ e l’università a Mosca, fece tutta la sua carriera nella provincia meridionale russa prima di essere chiamato da Andropov al Cremlino dove si occupò dei problemi dell’agricoltura. I suoi predecessori avevano avuto carriere ben diverse: Chruščëv era cresciuto nel Donbas ucraino e aveva guidato il partito in Ucraina; Brežnev veniva dall’Ucraina e aveva amministrato la Moldavia e il Kazakistan; Andropov aveva fatto carriera in Carelia, prima di essere nominato ambasciatore in Ungheria e diventare poi capo del Kgb; persino il siberiano Černenko era stato tra le truppe sul confine tra Kazakistan e Cina durante la collettivizzazione, e poi aveva lavorato in Moldavia. Diversamente, Gorbačëv mancava del tutto dell’esperienza necessaria anche solo per capire la complessità delle rivendicazioni nazionali che le sue politiche stavano per liberare.
In una riunione del Politburo del marzo 1988, dopo i pogrom anti-armeni che avevano insanguinato l’Azerbaijan, ammise onestamente di aver sottovalutato i nazionalismi e i potenziali conflitti. Secondo Robert Service, la sua fede nell’“amicizia tra i popoli” lo portò a cercare di risolvere le tensioni dando più potere alle istituzioni delle repubbliche sovietiche, con un decentramento che si tramutò invece nella strada verso lo scioglimento dell’Urss. D’altra parte, nel gruppo dirigente vicino a Gorbačëv giravano già da tempo sentimenti contrastanti sulle difficoltà di tenere insieme società e culture così diverse. Ancora Černjaev scriveva nel suo diario già nel 1984, dopo aver ascoltato al Comitato centrale una relazione disperante sui problemi del Turkmenistan: “Sorge un pensiero spiacevole: perché non mandare tutti questi turkmeni – insieme ai tagiki, uzbeki, estoni e agli altri – affan…? Che facciano di se stessi ciò che vogliono! Forse un giorno chiederanno di tornare”. Non l’hanno fatto.
Né Gorbačëv né quasi tutti gli altri membri della classe dirigente sovietica avevano gli strumenti intellettuali per gestire la riforma di un sistema economico strutturalmente avverso all’innovazione tecnologica e produttiva e dunque condannato alla stagnazione
La segretezza e l’isolamento intellettuale figlio della dittatura comunista ebbero nefaste conseguenze anche in campo economico. Conoscenze e informazioni non circolavano liberamente neanche al vertice. Quando Andropov all’inizio degli anni Ottanta reclutò Gorbačëv in un gruppo di lavoro sui problemi dell’economia, si rifiutò di mostrargli il bilancio dello Stato: “Stai chiedendo troppo!”. Un anno dopo, lo stesso Andropov commentava: “Non conosciamo il Paese in cui viviamo.” Né Gorbačëv né quasi tutti gli altri membri della classe dirigente sovietica avevano gli strumenti intellettuali per gestire la riforma di un sistema economico strutturalmente avverso all’innovazione tecnologica e produttiva e dunque condannato alla stagnazione. Tentando di rivitalizzarlo, affossarono un sistema che avrebbe tuttavia potuto continuare a riprodurre la propria inefficiente esistenza ancora a lungo. L’ideologia socialista, l’idea che il sistema economico fosse più solido di quello che poi si rivelò, l’incompetenza di tanti decisori ed economisti sovietici, il timore di andare a uno scontro frontale con i potenti interessi dell’industria di stato e del mastodontico settore militare, la paura delle devastanti conseguenze sociali e dunque politiche di una ristrutturazione industriale potenzialmente senza paragoni nella storia: tutto questo portò a mezze misure inefficaci e innescò una spirale economica discendente che tolse legittimità a Gorbačëv e prevenne il segretario democratizzatore dal provare ad acquisire legittimità democratica in un’elezione. Questo lo indebolì nel suo conflitto con Boris El’cin, che usò la nuova presidenza della Repubblica Russa, elettiva e dunque più legittima di quella sovietica occupata da Gorbačëv, per svuotare il potere del rivale. La battaglia fu vinta da El’cin dopo che la squadra di governo che Gorbačëv stesso aveva nominato compì un disperato e maldestro tentativo di riconsolidare il potere centrale con il fallito putsch dell’agosto 1991. A Natale Gorbačëv si dimetteva dalla presidenza di un Paese che aveva di fatto già cessato di esistere, non solo prima degli accordi tra El’cin e i suoi omologhi ucraino e bielorusso a Belaveža l’8 dicembre 1991, ma anche prima del referendum sull’indipendenza ucraina il 1 dicembre, che secondo Serhii Plokhy diede il colpo finale alla possibile esistenza di una qualsiasi formazione statale sovranazionale post-sovietica.
Negli anni seguiti all’ammainabandiera sovietico sul Cremlino, Gorbačëv con la sua fondazione ha difeso la democrazia in Russia, impegnandosi anche in un partito socialdemocratico nei primi anni Duemila, un’avventura politica che fece poca strada; ha difeso la libertà di stampa, contribuendo finanziariamente alla fondazione della ”Novaja Gazeta” nel 1993; ha criticato l’autoritarismo di Putin ma ne ha approvato l’azione di rafforzamento dello Stato dopo gli anni di El’cin e, più recentemente, anche l’annessione della Crimea. Alla disillusione sulla possibilità di rivoluzionare le relazioni tra le grandi potenze, aveva fatto seguito quella sulla possibilità di vedere la democrazia trionfare in patria. Come riporta William Taubman, già nel novembre 2003, in un’intervista al suo amico Dmitrij Muratov, direttore di “Novaja Gazeta” e Premio Nobel per la Pace nel 2021, Gorbačëv disse che temeva che per democratizzare la Russia ci sarebbero voluti “decenni, forse persino l’intero ventunesimo secolo”.
Gorbačëv ha sbagliato molto, fin dall’inizio della sua azione di governo. Ma pur non riuscendo a governare i processi che aveva messo in moto, ha seguito un ideale che, ammantato nel vocabolario del socialismo e persino del leninismo, era di libertà e democrazia. In un presente in cui la leadership russa è ormai più vicina a un’altra via storica seguita nella transizione postcomunista degli anni a cavallo tra Ottanta e Novanta, quella di Slobodan Milošević e delle sue guerre nazionaliste, gli idealistici errori di Michail Sergeevič Gorbačëv sembrano davvero uno dei momenti più nobili della storia politica del Paese oggi in mano a Vladimir Putin.
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