Libera e disinibita, cosmopolita e precaria, un tempo cheap e adesso sempre più “gentrificata”, grigia come le facciate dei suoi palazzi più moderni e verde come i numerosi parchi cittadini, Berlino è diventata protagonista anche della scena letteraria ed editoriale italiana. Tanto per limitarsi ai più recenti, ne sono prova i libri di Lorenzo Monfregola e Vincenzo Latronico, autore quest’ultimo anche di un reportage autobiografico sulle trasformazioni recenti della capitale tedesca.
La spiegazione non sta solo nei numeri. Se la Germania è la prima meta dell’emigrazione italiana degli ultimi decenni (circa 800 mila italiani abitano in Germania), solo 32 mila di loro risiedono nella capitale tedesca. L’afflusso di migliaia turisti e studenti Erasmus ha inoltre contribuito a far conoscere la città tedesca a tanti giovani italiani. Tuttavia, si tratta di numeri inferiori non soltanto rispetto a Londra, dove vivono oltre 366 mila italiani, ma anche a Parigi, dove sarebbero circa 53 mila i residenti di nazionalità italiana. Eppure, nessuna capitale europea sembra attirare di più l’attenzione, catturando i sogni, le aspirazioni e l’immaginario della generazione dei millenialse di quelle successive. Non stupisce, quindi, che anche romanzi di lingua tedesca ambientati a Berlino trovino spazio nel mercato editoriale italiano. Il caso di Marzahn, mon amour. Storie di una pedicure merita qualche attenzione in più. Tradotto da Rachele Salerno e pubblicato nel maggio 2023 dalla casa editrice L’Orma, fondata alcuni anni fa da traduttori italiani ritrovatisi – non a caso – in un salotto di Berlino e specializzata in letteratura straniera, il romanzo è stato pubblicato in lingua originale nel 2019 da Katja Oskamp, scrittrice e drammaturga originaria di Lipsia (nata quando c’era ancora il regime comunista dell’Est), divenendo in poco tempo un bestseller in Germania e Gran Bretagna.
Il romanzo prende le mosse dall’esperienza personale dell’autrice, che nel 2015, all’età di quarantaquattro anni, decide di iscriversi a un corso di formazione di pedicure abbandonando, almeno temporaneamente, la sua attività di scrittrice e drammaturga. Lo fa per problemi economici, aggravati dalla malattia del marito, ma non solo. In fuga dalla famiglia e scottata dai tanti rifiuti da parte delle case editrici, la scrittrice affronta la crisi degli «anni di mezzo, quelli in cui non sei né giovane né vecchia» (p. 9) e riesce a superarla con una scelta di rottura rispetto al suo milieu intellettuale. Oskamp riparte da un lavoro manuale che le consentirà, tra l’altro, di riprendere contatto con la realtà intorno a lei, specie con l’umanità berlinese che vive lontana dai riflettori e dal flusso di turisti, studenti, artisti o architetti provenienti da tutto il mondo.
Partendo dall’accademia per estetiste, dove si ritrovano decine di donne di età diverse le cui vite si erano arenate e che, «diventate umili, modeste e sottomesse» erano disposte a «cancellare i nostri traguardi e a ripartire da zero» (p. 12), l’autrice inizia il suo percorso per uscire dalla crisi. L’opera si incentra poi sul racconto dei clienti e del lavoro presso un salone di bellezza di periferia, gestito esclusivamente da donne – Tiffy, la proprietaria con qualche anno in più, e Flocke, la giovane nail artist collega della scrittrice – diverse per età, estrazione sociale ed esperienze, con le quali Oskamp svilupperà un solido rapporto di amicizia e complicità.
Si avvicendano così le storie di tante persone comuni – pensionate, ex-operai, famiglie, donne di mezz’età provenienti dall’ex-blocco sovietico, anziani con problemi di mobilità o mariti recalcitranti – che ben poco hanno a che fare con la Berlino internazionale e all’avanguardia. Da Peggy, che convince il marito Mirko a farsi la pedicure superando la sua iniziale ritrosia e che confida a Oskamp gli sforzi per farlo uscire dalla spirale dell’alcolismo, alla signora Bonkat, nata a Königsberg (oggi Kaliningrad), scappata dalla città nel 1944, poi divenuta infermiera tra mille difficoltà e gelosa della propria indipendenza tanto da non sposarsi mai, la scrittrice tedesca conosce i tanti volti della periferia. Non mancano storie commoventi come quella di Erwin Fritsche, che aveva lavorato come tecnico delle luci in un noto teatro di rivista nella Berlino Est. Nel corso delle sue sedute, il ricordo delle tante star conosciute – tedesche e straniere, alcune ancora note (come Milva) altre ormai dimenticate – lo rianima dalla demenza senile che spesso lo lascia disorientato e senza parole.
Oskamp riesce a raccontare la marginalità, sociale e spaziale, in un modo originale e delicato, scegliendo di partire da quanto di più periferico e «imbarazzante» si possa immaginare: i piedi. «Che si tratti di un capomastro uscito dritto dal cantiere o di un giovanotto tatuato dalla testa ai piedi, di una donna incinta o di una anziana, di un timido sempliciotto o di un verboso accademico, la prima volta che si tolgono i calzini e scarpe, tutti, nessuno escluso, mi chiedono scusa per i loro piedi» (p. 48). L’autrice non rinuncia alla descrizione minuziosa delle operazioni di pedicure dei clienti del centro in cui lavora, ma è da lì che, sorprendentemente, si instaura il rapporto intimo tra loro e Oskamp. Dopo essersi presa cura di «circa tremilaottocento piedi, diciannovemila dita» tra la primavera del 2015 e il 2019, conclude il suo personale percorso di superamento della crisi di mezz’età. Specchiandosi nei «variopinti clienti che si susseguono sul trono rosa senza che nessuno se ne accorga» (p. 125), la scrittrice ha ritrovato sé stessa nel loro vissuto fatto di ricordi, successi, lutti e drammi, ed è stata capace di farne letteratura.
La Berlino di Oskamp è lontana dalla città ufficiale della Porta di Brandeburgo, ma anche da quella multiculturale di Friedrichshain, benestante di Charlottenburg o disinibita e alternativa del Berghain. Il quartiere di Marzahn è a tutti gli effetti uno dei protagonisti del romanzo. Costituito da grigi casermoni (i Plattenbau) eretti tra anni Settanta e Ottanta nella parte più orientale di Berlino per dare agli operai della «patria» del socialismo tedesco case moderne e dotate di tutti i servizi, oggi è divenuto emblema della disoccupazione, del disagio dei tedeschi dell’Est e del successo di AfD (Alternative für Deutschland), il partito di estrema destra. Nel romanzo, la scrittrice conosce e vive quotidianamente Marzahn, che smette così di essere la periferia oscura e degradata, come pensa la maggioranza dei berlinesi, per farsi realtà vitale e sfaccettata. Non più un «deserto di calcestruzzo» ma quartiere verde, «con strade ampie, parcheggi a volontà e marciapiedi ben tenuti e ribassati in corrispondenza degli attraversamenti» (p. 26), Marzahan finisce per diventare, per Oskamp, la «mia isola galleggiante» (p. 127), la sua Berlino, dove sentirsi a casa.
L’autrice non pretende di svelare il volto segreto della dunkeldeutschland, la «Germania oscura» dell’Est, dove l’estrema destra tedesca fa incetta di voti. Non è il racconto del rancore e della xenofobia di quel «proletariato bianco» che si sente ai margini della società tedesca attuale. Il romanzo si tiene ben alla larga anche dalla stantia e stucchevole nostalgia dell’Est, la famigerata Ostalgie, per usare un neologismo divenuto abbastanza popolare anche da noi grazie a libri e film come Good Bye, Lenin (2003). Anche se tutto o quasi viene dall’ex Germania Est, Oskamp non mette al centro il passato socialista o le esperienze dei protagonisti nella Ddr, come altri autori hanno fatto. Un esempio è quello del signor Pietsch, un membro del disciolto Partito di unità socialista (la Sed che governava la Repubblica democratica tedesca), che sembra un «cliché ambulante» (p. 31). Scontroso e abituato a dare ordini nonostante i tanti anni trascorsi dal crollo del muro, il signor Pietsch si distingue per i racconti delle sue innumerevoli avventure amorose, vere o presunte che siano, e i maldestri tentativi di sedurre la stessa Oskamp più che per la rievocazione del passato comunista.
In definitiva, Oskamp è capace di dare voce a quanti abitano nella periferia senza farne oggetto di compassione affettata o indignazione, ma con delicatezza e senza rinunciare a un tono leggero anche di fronte alle situazioni più difficili. Un simile racconto fatto da chi vive la periferia ogni giorno, e non in maniera episodica come quello di reporter alla caccia di facili scoop o dell’intellettuale indignato, andrebbe guardato con maggiore attenzione anche da quanti cercano di raccontare le periferie italiane.
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