Luigi Berlinguer è, per la mia generazione, il ministro. Quello che hai imparato a conoscere prima di tutti gli altri: tra i banchi di scuola, devi contestare il vertice della Pubblica istruzione. Ho avuto la fortuna di conoscerlo, sin da quando ero studente, costruendo con lui un rapporto profondo, grazie al quale ho imparato tantissimo. Perché Luigi Berlinguer, nonostante gli incarichi da ministro a europarlamentare, passando per il Consiglio superiore della magistratura, era rimasto un professore, nel senso migliore del termine: una persona che discute volentieri con i più giovani, che rispetta e ascolta, senza fare sconti, incuriosito e attento.
Luigi Berlinguer è stato il miglior ministro della Pubblica istruzione: il giudizio lo espresse Luciano Corradini durante un convegno a Napoli, poco dopo il suo allontanamento dal ministero con la nascita, nel 2000, del II governo Amato. Per me, allora, le cose non stavano così; oggi penso che Corradini avesse ragione.
Nonostante provenisse dal mondo dell’Università – era stato anche rettore a Siena – la scuola restava il suo vero pallino. Berlinguer riteneva centrali due aspetti. Da un lato la crisi delle agenzie formative tradizionali e la perdita di centralità di scuola e università, in una fase in cui diveniva, però, fondamentale investire sulla formazione per tutti e tutte e magari per tutta la vita. Dall’altro la necessità di costruire anche nei sistemi formativi una dimensione europea.
Lui, che nel 1970 aveva scritto con Rossana Rossanda e Marcello Cini le Tesi sulla scuola su “il manifesto”, aveva chiare queste nuove sfide. E lavorò, soprattutto con l’autonomia scolastica, per valorizzare la scuola e le sue componenti come comunità, al tempo stesso liberandola da una dimensione troppo rigida (l’autonomia era pensata come negazione del centralismo), incentivando l’innovazione che queste comunità potevano ideare e sviluppare (Berlinguer parlava di autoprogettazione) e puntando sul “diritto al successo formativo”.
Fu un processo complicato, non privo di contraddizioni ed errori: da un lato promuovere la responsabilizzazione dei soggetti che fanno la scuola, dall’altro evitare che questo producesse, anche per via delle differenze territoriali (Nord-Sud ma anche centro e periferia) eccessive disparità tra gli istituti scolastici. Erano gli anni in cui Domenico Starnone aveva codificato queste paure nei suoi romanzi sulla scuola, giocando sul presunto rischio dell’ingresso nelle aule della Toyota, come poi riprendevano i film di Luchetti e Milani con Silvio Orlando. Insomma, un equilibrio difficile, perché in un sistema del genere occorre ripensare tutto: capacità di individualizzare l’insegnamento, strumenti di valutazione di quanto fatto, incentivi per chi fa di più. Non tutto andò sempre per il meglio: la burocratizzazione che oggi affligge la scuola è figlia della degenerazione di questa idea.
Berlinguer era convinto che bisognasse combattere senza tregua la dispersione scolastica, non solo un problema economico-sociale ma anche di maggiore “attrattività” del lavoro (e del guadagno) rispetto all’“inutilità” della scuola. Era importante, dunque, costruire attività che andassero oltre la scuola stessa: l’alternanza scuola-lavoro era pensata anche come un’attività che poteva offrire una possibilità in più, mostrando e sviluppando un talento di un giovane rimasto fino a quel momento nascosto. Una cosa che avrebbero dovuto fare tutti perché, se normata efficacemente, poteva essere un’opportunità.
Berlinguer era convinto che bisognasse combattere senza tregua la dispersione scolastica, non solo un problema economico-sociale ma anche di maggiore “attrattività” del lavoro rispetto all’“inutilità” della scuola
A questo proposito, un ricordo personale: gli dissi che aveva fatto male a eliminare la sperimentazione Brocca avviata a metà anni Novanta. Lui scosse il capo e mi disse: “Non si riforma aumentando materie e discipline, non è quella la strada”. Occorreva tener presente nuovi bisogni e interessi delle generazioni più giovani. La scuola non doveva solo cambiare: doveva imparare a stare sempre al passo. Come scrisse poi in un libro con Marco Panara, La scuola nuova, l’obiettivo deve essere quello “di portare gli alunni a maturare una salda capacità di discernere ciò che è essenziale da ciò che è ornamento”. E ancora: “Il diritto al successo formativo […] non è una pretesa di conseguire un risultato gratis. È al contrario il diritto di avere le opportunità di realizzare sé stessi, ciascuno secondo le sue capacità”.
Per tutto questo, Berlinguer riuscì a scontrarsi con tutti, destra e sinistra, conservatori e marxisti: la sua idea era che il classismo della scuola italiana provenisse anche e sempre di più dall’impianto metodologico, dall’idea (che attribuiva al neoidealismo) che esistessero saperi “nobili” e altri “minori”, una vera e propria gerarchia che a suo avviso era responsabile dell’espulsione del sapere scientifico e delle arti (ad esempio la musica) dalle classi italiane. Così riprendeva e attualizzava alcuni assunti centrali del Sessantotto e, soprattutto, delle Tesi.
Berlinguer riuscì a scontrarsi con tutti, destra e sinistra, conservatori e marxisti
Questa impostazione veniva poi calata nella cultura dei diritti. Era convinto che quella comunità andasse sempre responsabilizzata proprio attribuendo più potere decisionale ai singoli: i presidi, gli insegnanti e gli studenti (con i quali realizzò lo Statuto dei diritti). Ognuna con precisi compiti e opportunità: questo avrebbe reso la scuola un luogo in cui portare le novità e le esperienze dal mondo per elaborarle insieme e, quindi, tornare a essere centrale nella società. Da qui, l’idea di tenere aperti gli istituti per tutto il giorno. E che questa comunità dovesse pensare l’Europa: a suo avviso il continente doveva fare di più per uniformare la formazione, rendere più facile la mobilità, costruire una maggiore integrazione tra i sistemi scolastici. Così, Berlinguer riprendeva e sviluppava per la scuola alcune tra le migliori intuizioni del mondo comunista e post-comunista.
Fu una fase intensa per la scuola italiana: l’autonomia, la riforma dei cicli (mai entrata in vigore) e della maturità, l’innalzamento dell’obbligo scolastico, il tentativo – con il famoso “concorsone” – di promuovere una carriera tra i docenti (la cosa non piacque e per quello ci rimise il posto), la parità scolastica. Ma anche l’avvio del famoso “processo di Bologna” per le università. Che non ha dato i frutti sperati, va riconosciuto, ma che nasceva da un problema reale. Ricordo sempre che Berlinguer aveva da ridire sul fatto che Zecchino “ha stravolto la mia riforma!”.
Poi venne il 2001, che cambiò l’Italia – e forse non ne abbiamo ancora ragionato a sufficienza. A Trastevere arrivarono gli slogan di Silvio Berlusconi e Letizia Moratti, che aveva in mente una scuola alla Cuore (sic!). Iniziò l’epoca delle riforme “epocali” (l’Italia è il Paese in cui un’epoca dura pochi anni…), con la classica chiosa “…dopo quella di Giovanni Gentile”, mentre solo Berlinguer lo aveva attaccato frontalmente, prendendosela soprattutto con i neogentiliani. Ai suoi tempi per le riforme si usavano nomi tecnici: il Dpr sull’autonoma, il Pdl sui cicli. Poi arrivò la “pubblicità”: le tre i di Moratti, la meritocrazia di Gelmini, la Buona Scuola (ma ve la immaginate una riforma dal nome “la cattiva scuola”?). Tutti a cercare di coprire con una insopportabile retorica il vuoto pneumatico di progetti spesso inconsistenti, senza una lira (tantomeno un euro) e il più delle volte dannosi.
Berlinguer, invece, era convinto della necessità di mettere insieme i pezzi delle riforme e “vedere il mosaico nella sua compiutezza”. È stato un vero riformatore. Ha navigato in mare aperto e ha fatto errori. Ma, proseguendo con la metafora, aveva il gusto dell’avventura. Ha provato a rispondere politicamente alle sfide della globalizzazione. A me ha insegnato tanto: lo invitai a una riunione – erano gli anni della riforma Moratti – e lui venne e ci disse la sua. Poi attese che io concludessi, prese appunti e mi richiamò qualche giorno dopo per continuare a discuterne. Stile e rispetto.
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