Quante volte nell’ultimo decennio, con un’intensità accresciuta dall’ascesa di Donald Trump, dalla comparsa di teorie e sette ultramanipolatorie come QAnon, a lui più o meno direttamente legate, e dallo straripare delle fake news alimentate da regimi autoritari, abbiamo sentito parlare di «cospirazione», «complottismo» e «stile paranoide»? Bene ha fatto dunque Adelphi a tradurre un breve scritto col quale oltre mezzo secolo fa Richard Hofstadter introduceva la fortunata formula (Lo stile paranoide nella politica americana, 2021) che così spesso è echeggiata negli ultimi tempi.
Nato nel 1916 a Buffalo, figlio di una luterana di origine tedesca e di un ebreo di origine polacca, Hofstadter crebbe identificandosi culturalmente come ebreo e studiando nella prestigiosa Columbia University, alla quale tornò come docente nel 1946 in una carriera, troncata dalla leucemia nel 1970, che ne fece uno dei più importanti storici statunitensi. Il celebre sociologo radical Charles Wright Mills lo avvicinò alle scienze sociali, dalle quali Hofstadter, storico delle idee e della politica, attinse in maniera creativa categorie e suggestioni.
Sul piano politico, gli entusiasmi per la sinistra, nutriti intensamente in gioventù anche attraverso il matrimonio con la giornalista e scrittrice marxista Felice Swados, che morì precocemente nel 1945, non ressero alle disillusioni del Dopoguerra. Ma residuarono sul suo liberalismo un riflesso tragico e amaro. Che lo tenne al riparo dalle interpretazioni più celebrative e acritiche della storia americana, vista come una vicenda assolutamente «eccezionale» e aconflittuale, dominanti negli anni Cinquanta. E lo rese particolarmente sensibile al pericolo dei toni intolleranti e manichei della destra maccartista, incentrata su visioni «complottiste» della storia. Queste preoccupazioni (e l’influsso degli studi francofortesi sulla «personalità autoritaria») informarono la lettura controcorrente che a metà anni Cinquanta in The Age of Reform (premio Pulitzer) egli diede del movimento populista di fine Ottocento, sottolineandone le componenti retrive, nativiste e antisemite, sino ad allora sottovalutate. Ma, dicono oggi gli studiosi, non senza forzare in direzione opposta, oscurando la forte matrice democratica e la vigorosa opposizione del movimento all’emergente capitalismo corporate.
Preoccupazioni analoghe per l’intolleranza e la virulenza dei seguaci del candidato estremista di destra repubblicano Barry Goldwater alle elezioni del 1964 sono alle origini de Lo stile paranoide
Preoccupazioni analoghe per l’intolleranza e la virulenza dei seguaci del candidato estremista di destra repubblicano Barry Goldwater alle elezioni del 1964 sono alle origini de Lo stile paranoide, conferenza del 1963 trasformata in articolo l’anno successivo e riproposta in volume, assieme ad altri saggi, nel 1965. Solo che in questo caso, dopo un breve accenno ai populisti ancora affiancati a McCarthy, Hofstadter sposta il quadrante più indietro, alla ricerca della genealogia di un modo di far politica, affidato alle «animosità» e alle «passioni» incontrollate «di una piccola minoranza» e caratterizzato da «accesa esagerazione, sospettosità e fantasia cospiratoria», i tre caratteri-chiave dello «stile paranoide» (p. 11). L’analisi parte dalle polemiche antigiacobine e antimassoniche esplose dai pulpiti del New England negli anni Novanta del Settecento contro una presunta cospirazione dell’Ordine degli illuminati, piccolo «movimento tutto sommato naif e utopistico» (p. 23) del quale non si può «dire con certezza» neppure «se siano mai circolati negli Stati Uniti autentici membri» (p. 27). Passa alla rinnovata crociata antimassonica degli anni Venti e Trenta dell’Ottocento, che «trova terreno fertile fra i democratici popolari e gli egualitaristi radicali» (p. 31) in vaste aree del Paese. E infine punta sui movimenti anticattolici e nativisti alimentati di lì a poco da figure come l’acclamato pittore e inventore del telegrafo Samuel F.B. Morse, figlio del pastore anti-Illuminati Jerediah Morse, che vedevano negli immigrati cattolici dall’Europa la longa manus cospiratoria delle reazionarie potenze del Vecchio mondo e del Vaticano volte a rovesciare la giovane repubblica statunitense.
Al centro c’è sempre "l’uso di modi di espressione paranoidi da parte di soggetti più o meno normali", "uno stile di pensiero, non sempre collocato a destra e non confinato agli Stati Uniti, ma ingrediente tipico del fascismo e dei nazionalismi frustrati"
Al centro, dice l’A., c’è sempre «l’uso di modi di espressione paranoidi da parte di soggetti più o meno normali», «uno stile di pensiero, non sempre collocato a destra» (pp. 11-12) e certo non confinato agli Stati Uniti, ma anzi «ingrediente tipico del fascismo, e dei nazionalismi frustrati, sebbene attiri tanti non fascisti e lo si ritrovi spesso anche nella stampa di sinistra». Uno stile del quale l’A. intende ricostruire «la realtà», illustrando la «frequenza con cui ricorre» in un Paese celebrato per la sua integrità liberaldemocratica (pp. 17-18), in una rapida carrellata che dal periodo considerato plana poi sul «pensiero della destra contemporanea» e sui suoi tre «elementi base»: la presunta «cospirazione», in atto dal New Deal in poi, «volta a indebolire il capitalismo […] e ad aprire la strada al socialismo e al comunismo», il fatto che «la politica americana […] è stata dominata da uomini sinistri che hanno venduto astutamente e sistematicamente gli interessi nazionali americani» e infine il panico per diffusione del contagio, in un «Paese […] permeato da una rete di agenti comunisti», proprio come nell’Ottocento lo era «da agenti gesuiti» (pp. 48-50).
Lasciando al lettore il piacere di assaporare la lucidità degli argomenti di Hofstadter, passiamo a una breve riflessione sulla sua lezione. Nell’applicare una categoria clinica alla storia politica, Hofstadter non si nasconde le differenze «tra il rappresentante dello stile paranoide in politica e il paranoico clinico». Sebbene tendano entrambi «a essere estremamente sovreccitati, sospettosi, aggressivi, megalomani e apocalittici», il secondo «vede il mondo ostile e cospiratore in cui sente di vivere come diretto specificamente contro di lui», mentre il primo «trova che sia diretto contro una nazione, una cultura, uno stile di vita il cui destino non tocca solo lui ma milioni di persone» (p. 13). Nella sua visione manichea l’intera storia diventa «una cospirazione», materiata di conflitti che egli non vede «come una cosa che richiede mediazione e compromesso, come fa invece il politico di professione», ma piuttosto sempre come uno «scontro tra un bene e un male assoluti», contro un «nemico considerato totalmente malvagio e implacabile» (p. 58), secondo un meccanismo che consente «agli esponenti dello stile paranoide l’occasione di proiettare ed esprimere liberamente aspetti inaccettabili della propria mente» (p. 63) e che trova terreno fertile di coltura in momenti di crisi, catastrofici, quando «la tendenza paranoide viene risvegliata da un confronto fra interessi opposti» e irreconciliabili (p. 73). Come non trovare echi e suggestioni con le vicende più recenti? Ma, ed è un grosso ma, non senza passare queste suggestioni al vaglio dell’evidenza e degli archivi, dai quali Hofstadter si teneva dichiaratamente alla larga, alla prudenza nei confronti delle facili psicologicizzazioni, all’analisi impregiudicata delle ragioni e della natura dei conflitti, al molto che resta da scoprire sulla produzione, la diffusione e il consumo di idee, passioni e convinzioni in tempi e contesti specifici.
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