Esplorare i processi di trasformazione ideologica è un compito urgente nel tempo presente, in cui diverse certezze stanno venendo meno sia a destra sia a sinistra. Dopo decenni di dominio incontrastato e trasversale del neoliberismo – fino al punto di essere descritto come «pensiero unico» da Ignacio Ramonet di "Le Monde Diplomatique" – dieci anni di stagnazione, austerità e sofferenza sociale ulteriormente acuita dagli effetti della pandemia sembrano avere aperto squarci nell’orizzonte ideologico. Ne è dimostrazione il fatto che anche i sostenitori dell’austerità a seguito della crisi del 2008 – tra cui da noi Mario Draghi e il suo consigliere economico Francesco Giavazzi – hanno abbandonato alcuni dogmi in voga nei decenni passati e adesso parlano della necessità di spesa e investimenti pubblici (il famoso «debito buono»), mentre negli Stati Uniti – tradizionale cittadella del neoliberismo – Joe Biden ha provato (finora con poco successo) a recuperare ricette keynesiane. Oltre il tramonto del consenso neoliberista, c’è chi vede l’emergere di un nuovo consenso, un «Cornwall Consensus» (in riferimento all’ultimo G7 in Cornovaglia) in cui, come sostenuto dall’economista Mariana Mazzucato, «viene rivitalizzato il ruolo dello Stato nell’economia». Esplorare i processi di trasformazione ideologica è un compito urgente nel tempo presente, in cui diverse certezze stanno venendo meno sia a destra sia a sinistra
Quali potrebbero essere le conseguenze di questo riallineamento dell’orizzonte ideologico per i partiti di centrosinistra, che nei decenni passati hanno sposato con dedizione la visione neoliberista? E quali passi dovrebbero essere intrapresi per facilitare il rinnovamento culturale necessario alle sfide di questi tempi di crisi del neoliberismo e della globalizzazione?
Per affrontare queste domande, è necessario partire da una prospettiva storica, che in tempi di «presentismo» – l'ossessione per il presente – restituisca una visione di lungo periodo. Solo chiarendo quanto è successo negli ultimi decenni si può immaginare un percorso orientato al futuro. Utile, a questo scopo di mappatura ideologica e storica, è il lavoro della sociologa statunitense Stephanie L. Mudge, che nel suo Leftism Reinvented analizza la trasformazione ideologica dei partiti di centrosinistra in Occidente negli ultimi decenni, e in particolare la loro conversione alla dottrina neoliberista. Il libro è un imponente volume di 500 pagine (ancora non tradotto in italiano), in cui la sociologa esplora con grande dettaglio documentario la trasformazione di quattro partiti, la Spd tedesca, il Sap svedese, il Labour britannico e il Partito Democratico negli Stati Uniti.
Il libro usa come materiale primario d’analisi il linguaggio politico che – come afferma Mudge nel primo capitolo – «è il mezzo della politica rappresentativa, ma un mezzo la cui produzione i rappresentanti non controllano» (p. 10). Questo interesse per il ruolo del linguaggio presenta alcune somiglianze con la tradizione dell’analisi del discorso, sviluppatasi nel mondo anglosassone a cavallo tra studi culturali e teoria politica. Particolarmente influente è stata la «Essex School» (dall’Università dell’Essex dove si è sviluppata) di analisi dell’ideologia e del discorso, legata ai teorici del populismo Ernesto Laclau e Chantal Mouffe. Mudge si differenzia da questa tradizione perché non è interessata solamente al linguaggio politico, ma anche alla sua produzione.
Il lavoro di Mudge si muove nel solco della «sociologia della conoscenza», e in particolare le ricerche di Karl Mannheim come Ideologia e Utopia, e in linea con questa tradizione ricollega il linguaggio agli attori che lo producono e gli interessi che essi rappresentano. Per Mudge il luogo decisivo per la produzione del linguaggio politico è il partito, e in particolare quelle figure che chiama «esperti di partito» o «teorici di partito». Gli esperti di partito «sono attori sociali nella rete dei partiti che orientano la loro attività verso la produzione di idee, retoriche e agende programmatiche, con l’obiettivo di modellare il modo in cui l’elettorato e i politici vedono e comprendono il mondo» (p. 5). Essi giocano un luogo di intermediari tra politici ed elettorato che è decisivo nella battaglia per il consenso. I profili professionali di queste figure sono diversi: accademici, economisti, spin doctor, attivisti, giornalisti ecc. Inoltre la loro composizione sociale e posizione organizzativa – questa è la tesi fondamentale del libro – evolve nel tempo, riflettendo il cambiamento politico e ideologico dei partiti di riferimento.
La periodizzazione ideologica proposta da Mudge distingue tre fasi della sinistra: la sinistra socialista; la sinistra economicista; la sinistra neoliberista. La prima fase è piuttosto ovvia: corrisponde al momento di affermazione dei partiti socialisti e social-democratici durante i primi decenni del Novecento. In questo contesto, rifacendosi a discorsi ufficiali e documenti programmatici, Mudge mostra come i partiti di sinistra europei condividevano un’analisi marxista della realtà, schierandosi senza mezzi termini con i lavoratori nella lotta di classe e dichiarando come loro obiettivo la proprietà collettiva dei mezzi di produzione. Chiaramente negli Stati Uniti il Partito Democratico – un caso limite in tutto il libro – non ha queste posizioni apertamente socialiste né un legame organico al movimento dei lavoratori, come già evidenziato a inizio Novecento dal sociologo tedesco Werner Sombart. Ma, rispetto a oggi, si dichiarava in modo più esplicito il portatore degli interessi del mondo del lavoro.
La seconda fase – la sinistra economicista – è invece quella che ha luogo nel dopoguerra, arrivando al culmine negli anni Sessanta, in cui il keynesismo sostituisce il socialismo come riferimento ideologico dei partiti di centrosinistra. La richiesta della collettivizzazione dei mezzi di produzione viene progressivamente annacquata, e le parole d’ordine si focalizzano sulla necessità di crescita, pieno impiego e prosperità condivisa. In Europa, un passaggio decisivo è il congresso della Spd a Bad Godesberg nel 1959, in cui vengono abbandonate le parole d’ordine marxiste e proposto l’obiettivo di una «economia sociale di mercato», in cui – secondo la famosa massima – si intendeva conciliare «tanta concorrenza quanto possibile, tanta pianificazione quanto necessaria».
La terza fase è la reinvenzione neoliberista dei partiti di centrosinistra. Rispondendo al declino del consenso keynesiano (a lungo sostenuto anche dal centrodestra) e le vittorie di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, i partiti di centrosinistra cercano di «modernizzarsi». La premessa è che nei «nuovi tempi» (per usare una definizione in voga tra i blairiani durante gli anni Novanta) i partiti di centrosinistra dovevano fare i conti con un mondo in cui la classe operaia aveva perso il ruolo di soggetto universale e sposare un vago «progressismo» capace di sedurre la classe media. Nel discorso politico dei partiti del centrosinistra il mercato viene ora visto come una forza benevola e la globalizzazione come un fatto ineluttabile. Le tre fasi storiche individuate dalla Mudge corrispondono a tre tipi di esperti di partito alquanto diversi tra di loro
Per Mudge, il linguaggio del «sinistrismo della terza via» ha tre elementi chiave: «una posizione amichevole verso il mercato, un pragmatismo anti-dogmatico e una versione del welfarismo che celebra il lavoro, l’adattabilità e la responsabilità personale» (p. 58). Si tratta della visione popolarizzata in Italia da autori come Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, secondo cui «il liberismo è di sinistra». Questo discorso è fondamentale nel riassetto dei partiti del centrosinistra e nella loro capacità di trasformarsi in «partiti pigliatutto», capaci di mobilitare la classe media. Tuttavia, è anche la svolta che secondo molti autori, tra cui Thomas Piketty, è alla radice della perdita di consenso del centrosinistra presso i lavoratori, il tutto a vantaggio dei populisti di destra.
Se alcuni punti di questa analisi storica dell’involuzione neoliberista dei partiti possono suonare familiari, l’analisi di Mudge ha due elementi di originalità. Il primo è identificare nella svolta economistica e keynesiana della sinistra una fase di passaggio verso il neoliberismo. Questo è interessante dato il modo in cui molti vedono il keynesismo come una posizione progressista da recuperare per superare il neoliberismo. Al contrario, Mudge sostiene che l’adesione al keynesismo fu accompagnata da un abbandono progressivo degli ideali socialisti a partire dalla proprietà collettiva dei mezzi di produzione, e una trasformazione economicista e tecnocratica della produzione del linguaggio politico.
Il secondo contributo del libro al dibattito scientifico è quello di ricondurre – coerentemente con l’approccio della sociologia della conoscenza – queste trasformazioni politiche alla trasformazione di quello che potremmo chiamare il «personale ideologico», in un modo che richiama alla mente C. Wright Mills ne La élite del potere e di Ralph Miliband ne Lo Stato nella società capitalistica.
Le tre fasi storiche individuate da Mudge corrispondono infatti a tre tipi di esperti di partito alquanto diversi tra di loro. Durante la fase socialista, dominano intellettuali fortemente organici al partito, a cui devono la loro stessa carriera. Si tratta di giornalisti, attivisti e sindacalisti formati nel movimento dei lavoratori, nel partito e nei suoi organi di educazione popolare e di stampa: figure come Rufold Hilferding nella Spd, Fredrik Thorsson nella Sap, Philip Snowden nel Labour. Nonostante – eccetto Hilferding (che comunque era un giornalista e non un professore) – questi personaggi non avessero credenziali accademiche, essi ebbero un ruolo importante nel definire il linguaggio politico e le politiche economiche delle loro formazioni, fino ad arrivare a diventare ministri dell’Economia.
È solo nel dopoguerra che gli «economisti laureati» acquistano un ruolo dominante come esperti di partito, facilitando la conversione del centrosinistra al keynesismo. Le necessità di pianificazione economica e la crescita dello Stato sociale portano i governi a creare nuovi organismi per sviluppare politiche economiche, reclutando a tale scopo schiere di economisti. Un processo simile avviene dentro i partiti che coltivano i propri economisti di riferimento – ad esempio Karl Schiller, economista e ministro delle Finanze della Spd –, spesso in polemica con i sindacati che li guardano con sospetto.
La fase neoliberista è segnata anch’essa da una nuova figura di «esperto di partito». Si tratta di quelli che Mudge chiama Tfe (transnational finance-oriented economists): economisti che, pur non essendo necessariamente di «fede» neoliberista, hanno assorbito l’idea che il compito della scienza economica sia rendere la politica compatibile con la finanza. A questa nuova generazione post-keynesiana di economisti si affianca un esercito di consulenti, esperti di comunicazione e spin doctor, oltre a think-tank e fondazioni che sopperiscono alla crescente incapacità dei partiti di produrre internamente la conoscenza di cui hanno bisogno.
Decisiva, in questo contesto, è la creazione di grandi reti internazionali di think-tank come l’Atlas Network a destra e la rete di ispirazione Terza Via Policy Network, che giocano un ruolo sempre più evidente, e autonomo rispetto ai partiti, nella battaglia ideologica. In altre parole, la progressiva moderazione dei partiti di centrosinistra è stata accompagnata da una progressiva esternalizzazione del processo di produzione del linguaggio politico. È necessario tornare a prendere sul serio la lotta sul discorso e sul linguaggio, dato che – come dimostra Mudge – è lì che si gioca una battaglia sul consenso che ha poi ricadute politiche tangibili
A fianco di questo quadro diagnostico Mudge non offre una esplicita prognosi su come superare la conversione neoliberista dei partiti. Tuttavia, nella conclusione, la sociologa suggerisce che è necessario recuperare l’idea gramsciana di «intellettuale organico» che possa nuovamente «dare voce a chi è senza voce» (p. 375).
Ma cosa significa oggi per i partiti di centrosinistra ricostruire intellettuali organici? Prima di tutto è necessario tornare a prendere sul serio la lotta sul discorso e sul linguaggio, dato che – come dimostra Mudge – è lì che si gioca una battaglia sul consenso che ha poi ricadute politiche tangibili. Tuttavia questa ambizione può avere successo solo sulla base di un investimento organizzativo: la creazione di strutture e l’arruolamento di personale che concretamente mettano in opera questo lavoro di «produzione del linguaggio». Ciò richiederebbe prima di tutto ai partiti politici di centrosinistra di investire in think-tank e altre organizzazioni extra-partitiche attrezzate per questa battaglia sul linguaggio – al fine di bilanciare una situazione in cui, specie in Italia, su questo fronte la destra ha un dominio schiacciante. Ma nel lungo termine significa anche tornare a creare strutture interne ai partiti in cui assolvere al compito di sviluppare linguaggi, visioni del mondo e politiche concrete. Un processo che è stato troppo a lungo «esternalizzato», rendendo i partiti preda di «esperti di mestiere» i cui interessi spesso non coincidono con quelli degli elettori che il centrosinistra vorrebbe rappresentare.
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