La guerra appena conclusa, oltre ad aver messo in luce come sia necessaria una soluzione politica alla situazione drammatica in cui versa la Striscia di Gaza, sotto embargo israeliano ed egiziano dal 2007, ha fatto emergere in maniera molto chiara le tensioni esistenti all’interno dello Stato ebraico tra ebrei israeliani e palestinesi cittadini di Israele. In molte città, da Jaffa a Lod, a Haifa, si sono registrati scontri e violenze, con luoghi di culto bruciati, molotov lanciate contro abitazioni private, linciaggi per strada. E se tali tensioni sono certamente state esacerbate dal conflitto in corso a Gaza, vanno anche – se non soprattutto – lette alla luce di quanto accaduto negli ultimi anni, allorché sono state approvate una serie di leggi che hanno rafforzato il carattere ebraico di Israele a discapito di quello democratico, creando ulteriori discriminazioni nei confronti della popolazione araba e confermando la validità di quanto associazioni e intellettuali israeliani e palestinesi sostengono da tempo definendo Israele una etnocrazia, non una democrazia.
Tra tutte non si può non ricordare la Legge «Israele come Stato nazione del popolo ebraico», approvata nel luglio 2018, che ha sostanzialmente stabilito come solo gli ebrei – e non gli arabi – abbiano diritto alla propria autodeterminazione all’interno dello Stato di Israele, prevedendo la possibilità di creare comunità riservate solo agli ebrei e declassando l’arabo da lingua ufficiale, accanto all’ebraico, a lingua con uno statuto speciale. Anche la popolazione drusa – sebbene integrata nello Stato, come dimostra la possibilità riservata ai drusi di svolgere il servizio militare – ha manifestato la propria contrarietà alla legge, ritrovandosi questa volta a fianco dei palestinesi cittadini di Israele.
Se questa divisione sulle linee etniche è nota, meno conosciute sono le fratture che corrono all’interno della società ebraica israeliana e che fanno di Israele un Paese assolutamente composito, non riconducibile soltanto alla politica che il suo governo porta avanti, soprattutto a partire dal 2009, da quando Benjamin Netanyahu ricopre nuovamente la carica di Primo ministro dopo la breve parentesi del 1996-1998. La complessità di Israele emerge in maniera chiara se si ricorda che dal marzo 2019 si sono svolte quattro elezioni parlamentari senza che a oggi sia emerso un governo di maggioranza. Se è vero che la principale divisione politica in questo momento è tra chi continua a sostenere Netanyahu e chi invece vi si oppone, è anche vero che questa spaccatura ne maschera altre, molto radicate nella società israeliana.
Una delle più evidenti e sentite è quella tra laici e religiosi, sebbene questa separazione sia in realtà poco corretta e sarebbe meglio pensare a quattro contesti: il mondo laico; quello cosiddetto masortì, cioè «tradizionale»; quello datì leumì, cioè «nazional-religioso»; e quello degli haredim, gli «ultraortodossi». Sono solo questi ultimi a rappresentare un mondo separato dagli altri tre, sebbene anche tradizionali e nazional-religiosi non siano laici. Molti degli ultraortodossi vivono in condizioni di povertà perché gli uomini non lavorano, ma impiegano tutto il loro tempo nello studio e nella preghiera, e soprattutto non svolgono il servizio militare, l’asse portante della società, uno degli elementi chiave per garantire la piena integrazione a livello socio-economico.
Una delle spaccature più evidenti e radicate nella società israeliana è quella tra laici e religiosi, la cui lontananza può essere descritta col riferimento alle due città simbolo di Israele, Tel Aviv e GerusalemmeIn molti casi, per descrivere la lontananza tra laici e religiosi, si usa il riferimento alle due città simbolo di Israele, Tel Aviv e Gerusalemme. Se la prima si percepisce come dinamica e inclusiva, vedendo la seconda come parassitaria e divisiva, Gerusalemme si ritiene il cuore pulsante dell’ebraismo e considera Tel Aviv una città priva di valori. Se si analizzano i risultati elettorali delle ultime quattro tornate, emerge in maniera molto netta la divisione tra i due mondi: Tel Aviv ha votato in maggioranza per governi che si potrebbero definire, non senza forzature, di centro-sinistra, mentre Gerusalemme si è espressa in maggioranza a favore delle forze di destra ed estrema destra.
Più che una divisione destra-sinistra, tuttavia, le due città rimandano a una spaccatura ideologica tra due visioni del sionismo, che vengono spesso presentate come medinat Israel, cioè «Stato di Israele», e Eretz Israel, cioè «Terra di Israele». La prima mette al proprio centro lo Stato ebraico e ritiene che l’elemento fondante del sionismo sia uno Stato in cui gli ebrei siano la maggioranza e possa pertanto rappresentare un rifugio per gli ebrei di tutto il mondo nel caso in cui questi ne abbiano bisogno per fuggire l’antisemitismo. Se questo è il principio accomunante, esistono comunque diverse posizioni al suo interno che riguardano il rapporto tra Stato e religione e, dunque, il grado di laicità del Paese, ma ancora di più i rapporti tra maggioranza e minoranza e il bilanciamento tra il carattere ebraico e quello democratico.
La seconda visione, Eretz Israel, privilegia invece la terra, vale a dire il controllo su tutta la Palestina storica, quella su cui si estendeva il Mandato britannico, il che significa non solo lo Stato Israele con i confini successivi alla Guerra del 1948 internazionalmente riconosciuti, ma anche il Territorio occupato palestinese, cioè Gaza e la Cisgiordania con Gerusalemme Est. Il cuore del sionismo, più che lo Stato ebraico, è per questa visione il possesso della terra tra il Mediterraneo e il Giordano, il che significa il proseguimento dell’occupazione, il mantenimento degli insediamenti e, soprattutto, il controllo sulla popolazione che vive in quest’area geografica, vale a dire poco più di 14 milioni di persone, il 50% circa delle quali sono ebree e il restante 50% arabe.
I sostenitori di medinat Israele ritengono che la fine dell’occupazione e la creazione di uno Stato palestinese sia la sola possibilità per permettere al sionismo di continuare a esistere, perché solo ciò garantirebbe l’esistenza di uno Stato ebraico (e democratico) con una chiara maggioranza ebraica. I fautori di Eretz Israel pensano il contrario, e cioè che la nascita di uno Stato palestinese in Giudea e Samaria significherebbe la fine del sionismo, con la perdita dei principali luoghi sacri dell’ebraismo, da Hebron, dove si trova la Tomba dei patriarchi, a Betlemme, dove c’è la Tomba di Rachele, a Gerusalemme, con la città vecchia, il quartiere ebraico al suo interno, e il Muro occidentale, il luogo più sacro dell’ebraismo.
Entrambe queste due visioni ideologico-politiche contengono al loro interno varie posizioni e la presenza di numerosi partiti politici nelle ultime quattro elezioni non fa che confermare le tante sfaccettature della politica e della società israeliana. Molti autori hanno messo in luce come negli ultimi vent’anni all’interno del sionismo che si identifica con Eretz Israel si sia progressivamente affermato, diventando maggioranza, un nuovo tipo di sionismo, chiamato appunto neo-sionismo o sionismo neo-revisionista, una versione radicalizzata del sionismo revisionista. Mentre per quest’ultimo l’uso della forza era necessario perché gli arabi accettassero di negoziare e si giungesse così a un accordo politico, il sionismo neo-revisionista ritiene, invece, che la diplomazia non abbia alcun valore e che nelle relazioni con i palestinesi – sia residenti nel Territorio occupato palestinese sia i cittadini di Israele – sia rilevante soltanto la forza. Al contempo, l’assorbimento nell’ideologia del sionismo revisionista di elementi messianici, tipici della torsione che ha caratterizzato il sionismo religioso dopo il 1967, su tutti il ruolo di Eretz Israel nel progetto di redenzione del popolo ebraico, ha fatto sì che il conflitto con i palestinesi non sia più letto solo attraverso un prisma politico, ma anche – se non soprattutto – etnico-religioso.
L'assorbimento nell’ideologia del sionismo revisionista di elementi messianici ha fatto sì che il conflitto con i palestinesi sia letto soprattutto attraverso un prisma etnico-religiosoLe conseguenze politiche sono evidenti: la progressiva colonizzazione della Cisgiordania con la nascita di nuovi insediamenti e l’allargamento di quelli esistenti; la messa in atto di politiche unilaterali; il ricorrente ricorso all’uso della forza; la tendenza a silenziare l’opposizione interna, soprattutto quella delle Ong e delle associazioni riconducibili alla sinistra, sia sionista sia non-sionista; il peggioramento delle relazioni tra maggioranza ebraica e minoranza araba.
Parallelamente, dalla visione medinat Israel si è progressivamente venuta a staccare una lettura che è stata definita post-sionismo: coloro che si riconoscono in tale interpretazione ritengono che il sionismo abbia avuto risultato molto positivi, su tutti la creazione di Israele, uno Stato moderno, democratico, capace di ridare vita all’ebraico, ma abbia al contempo causato sofferenza a una serie di soggetti, dagli «ebrei arabi», gli immigrati provenienti dai Paesi arabi-musulmani, ai palestinesi, dispossessati del loro Paese nel 1948 e sotto occupazione militare dal 1967. Tale posizione teorizza il superamento del sionismo e propone dunque la trasformazione di Israele da Stato ebraico in Stato pienamente democratico, in cui i diritti non siano attribuiti sulla base della appartenenza etnica, ma della cittadinanza.
Se il sionismo neo-revisionista è molto diffuso all’interno della società e della politica israeliana e varie forze politiche se ne fanno interpreti – inclusi partiti che si oppongono a Netanyahu, pur condividendone la politica nei confronti del Territorio occupato palestinese e la torsione etno-nazionalista che ha dato vita alla ricordata Legge, «Israele come Stato nazione del popolo ebraico» – il post-sionismo è invece una posizione estremamente minoritaria, che non trova rappresentanza in Parlamento e rimane appannaggio di organizzazioni non governative e intellettuali. Eppure, sono proprio questi ultimi a dialogare con i palestinesi, rappresentando una concreta possibilità di superamento del conflitto tanto all’interno di Israele quanto in Cisgiordania e a Gaza. Sono proprio queste realtà, seppur minoritarie, a dimostrare la profonda ricchezza della società israeliana e a confermare la necessità di avvicinarsi e studiare Israele con attenzione, evitando semplici generalizzazioni che non sono utili né alla comprensione del contesto, né al raggiungimento della pace.
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