Questo articolo fa parte dello speciale La guerra in Ucraina
Non è la solita, eterna, perfino scontata questione dell’arte per l’arte sì o no, ma un arduo intreccio che si potrebbe anche definire insolubile nodo di storia, geografia, arte e costume. Se il 24 febbraio 2022 la Russia aggredisce l’Ucraina e l’8 marzo successivo la Cardiff Philharmonic Orchestra, dovendo suonare alla St David’s Hall, rimuove dal programma una musica russa per solidarietà con la nazione ucraina, cosa risponde il nodo di cui sopra? Ovvero, dismessa la questione dell’arte per l’arte in quanto la società non può non entrare sempre dappertutto, in che senso la Ouverture 1812 di Ciajkovskij, il grande musicista nato a Votkinsk sotto gli Urali, offende l’Ucraina? Una composizione musicale che celebra (meglio, celebrò) la resistenza russa all’invasione francese (meglio, napoleonica), può fungere da simbolo di una nazione (e quale, dal “borgo” di San Pietro allo stretto di Bering) che infierisce contro un’altra confinante, non certo piccola ma inevitabilmente più organica, compatta, orgogliosa di sé? Deponendo per un attimo arte e musica, anticamente si sarebbe detto che è così che un vasto impero attacca un semplice regno, ed è sempre male, malissimo. Recuperando l’arte della musica, invece, si potrebbe far notare come i maggiori concertisti “russi” siano stati ucraini (e universali, a questo livello), dai violinisti Ojstrach e Kogan ai pianisti Neuhaus, Horowitz, Gilels e Richter. I violinisti Heifetz e Kremer? Lettoni. Ma basta così, ché si rischia di cadere dall’altra parte della barricata e fingere di ignorare quanti di costoro abbiano studiato a Mosca o a San Pietroburgo o magari siano diventati statunitensi; e soprattutto che Šostakovič, uno dei massimi musicisti del Novecento, fosse esattamente pietroburghese.
«E sono, / assalitrice d’assalita» canta donna Anna nel Don Giovanni di Mozart prima della splendida aria «Or sai chi l’onore / rapire a me volse»
Stante la lunghezza e la larghezza della geografia, della storia, dell’arte e del costume, succede che ogni popolo, nazione o Stato può essere stato variamente aggressore e aggredito (il tempo passato è sempre più augurabile). Certo non indolore signora del mondo d’allora, Roma fu smembrata e quasi azzerata dalle invasioni dei barbari (nomadi, ma a loro volta cacciati da altrove). Dura e secolare padrona di mezz’Italia e mezz’America, la Spagna s’era liberata degli Arabi con una reconquista di otto secoli. Arcigna dominatrice della Mitteleuropa, Vienna fu ripetutamente assediata dai Turchi e poi espugnata da Napoleone. E la povera Polonia riuscì a liberarsi della Russia come la povera Russia avrebbe resistito alla “campagna” (chiamiamola così) di Napoleone. «E sono, / assalitrice d’assalita» canta donna Anna nel Don Giovanni di Mozart prima della splendida aria «Or sai chi l’onore / rapire a me volse»: sorpresa nottetempo e quasi violentata da lui, la primadonna soprano resiste al basso protagonista e lo insegue, lo minaccia, gli impedisce di fuggire (insomma, dice, ero vittima di un’aggressione e ne divento autrice).
Prima dell’arte, ecco la cronaca dell’incriminato pezzo di Ciajkovskij. Nel giugno del 1881 l’appena quarantunenne Pyotr Ilyich (1840-1893), che aveva già composto quattro delle sue sei sinfonie (la seconda e la terza, guarda guarda, intitolate Piccola Russia e Polacca), ricevette dal suo editore Jurgenson una commissione: l’anno dopo la città di Mosca inaugurava l’Esposizione delle Arti e dell’Industria e aveva bisogno di una musica nuova, non qualunque ma celebrativa, non certo lirica ma accattivante e spettacolare. Pur dichiarandosi avverso a roba del genere, il non sempre poetico maestro rispose di sì, ma a due condizioni: una data precisa, senza tanti tira e molla, e la somma di cento rubli. Patti chiari, lamentele ancora, una settimana di lavoro e il 18 novembre nacque questa 1812, Ouverture solennelle oggi sgradita in quel di Cardiff. Nel frattempo la prima ragione celebrativa s’era venuta quasi triplicando: Alessandro II Romanov compiva un quarto di secolo di regno e Mosca acquisiva una nuova cattedrale, intestata a Cristo Redentore (o Salvatore). Invero lo Zar (fra l’altro poco simpatico a Ciajkovskij) sarebbe stato festeggiato in tanti altri modi di parata autentica, ma la cattedrale no, quella (sebbene, come monumento, poco ammirata da Ciajkovskij) era importante perché a sua volta era stata concepita per commemorare la strenua resistenza russa del 1812 all’invasione francese, la drammatica disfatta di un esercito guidato da uno stratega che semel in vita poteva anche aver sbagliato i conti. E l’opera, che non era una lunga e articolata sinfonia ma una breve musica descrittiva rispettosa delle richieste del responsabile della mostra Nikolai Rubinštejn (dai 15 ai 25 minuti!), nacque a Mosca il 20 agosto del 1882, in un salone apposito dell’esposizione.
Sperimentato da Beethoven, Berlioz e Mendelssohn, il genere era quello dell’ouverture sinfonica, una musica appunto breve impostata e intitolata a un personaggio o un evento magari storico, che nonostante il nome non apre a un bel niente se non a un ritratto ideale del portatore del titolo (non dissimile dal poema sinfonico da poco inventato da Liszt). La sinfonia fosse filosofica, il concerto fosse brillante, il quartetto fosse dotto, ma l’ouverture doveva essere facile, caratteristica, dicasi pur fotografica, quasi quasi antesignana della colonna sonora. E infatti la Ouverture 1812, che è fra le composizioni più popolari di Ciajkovskij (con il Primo concerto per il pianoforte, la Patetica per l’orchestra, Il lago dei cigni per la danza), fa di tutto per raccontare, descrivere, guerreggiare, piangere, esultare, e raccoglie temi musicali a destra e a manca.
La Ouverture 1812 fa di tutto per raccontare, descrivere, guerreggiare, piangere, esultare, e raccoglie temi musicali a destra e a manca
Due viole e quattro violoncelli cominciano in Largo suonando un canto ortodosso («Salvaci, o Signore») e l’alternanza con i legni aumenta il senso di sgomenta e silente coralità, anzi bicoralità (antifonale, per la precisione). Seguono una sorta di lamento (vi è mirabile l’oboe) e una sorta di galoppo; e dopo una pausa scoppia, in Allegro giusto, la battaglia, quella leggendaria anche se storicissima di Borodino. Lo scontro ha luogo sopra più temi, in aggiunta ai precedenti che possono tornare: la Marsigliese, un’autocitazione (dal Voivoda), un canto popolare russo, l’inno nazionale russo (Dio salvi lo Zar). Era, dopo l’introduzione lenta, l’esposizione tematica, che da regola deve prima svilupparsi, qui rapidamente, e poi riprendersi, quanto mai spettacolarmente, qui in Allegro vivace. L’inno francese fa un ultimo tentativo, ma cinque colpi di cannone lo mettono a tacere: il canto iniziale risuona con la campane a stormo, il galoppo è chiaramente quello dei vincitori, l’inno russo trionfa chiassoso, così soddisfatto da poter sembrare anche insolente grazie alla cornice sonora delle cannonate. Né archi centro-gravi né oboe, però, né cannone o campane possono soddisfare un lavoro programmatico del genere: l’organico comprende archi tutti, ottavino, soliti legni a coppie, 4 corni, 2 trombe, 2 corni a pistone, 3 tromboni, basso tuba, triangolo, timpani, tamburo, tamburo militare, grancassa, piatti; quindi banda militare ad libitum cioè a piacere (come del resto cannone e campane); infine coro, non previsto dall’autore ma inserito da certa prassi là dove si echeggiano dei canti veri e propri. In questo senso, volendo, l’opera risulta proprio d’occasione: disponendo di complessi generosi la si può arricchire così, a volte anche con cannoni veri (a salve) e fuochi d’artificio.
Quella della Marsigliese è una musica tanto turpe, odiosa, collusa con aggressori e perdenti? Manco per sogno: era ed è il simbolo della riscossa, nato francese e diventato prima europeo e poi mondiale
I francesi sono cacciati indietro, anzi destinati a languire, morire di freddo e di stenti, decimarsi, rimpatriare vergognosamente. Ma quella della Marsigliese è una musica tanto turpe, odiosa, collusa con aggressori e perdenti? Manco per sogno: era ed è il simbolo della riscossa, nato francese e diventato prima europeo e poi mondiale a ispirare ogni sentimento di riscossa e di rivincita; e durando fatica a cambiare faccia e senso, può funzionare per qualunque popolo oppresso pronto a schiacciare l’oppressore, un altro popolo o una parte del suo stesso. Derivano, questa funzionalità e questa prontezza, dai due elementi che seguono, diversi ma complementari. La prassi, la consuetudine, la possibile associazione mentale, magari l’orecchio stesso dell’uomo del XIX-XXI secolo intendono così la Marsigliese, forse non conoscendone la genesi complicata o il nome stesso dell’autore (Rouger de Lisle, a proposito), e che a Ciajkovskij sia servita per disegnare un’aggressione non sorprende proprio nessuno. Perché? perché, ed ecco la seconda ragione, è musica “moderna”, ottocentesca (risalente al 1792, per la verità), quindi un’esperienza suggestiva, emozionante, artistica più di tutte le altre che per esprimersi hanno bisogno di penne, pennelli e scalpelli, infine è un’arte che dice una cosa ma allude a cento altre, che si può prendere e rivoltare come un guanto senza scemarne, anzi, il valore e il significato.
L’inno alla gioia di Beethoven è l’inno nazionale d’Europa? Male, giacché la suaNona che finisce così l’autore intendeva chiamarla la Tedesca (dopo l’Eroica e la Pastorale); bene, invece, se quel messaggio implicito è diventato esplicito con molti significati a dispetto di quello solo. Il coro del Nabucco di Verdi era il lamento degli ebrei imprigionati e oppressi dai babilonesi? Certo, ma gli italiani lo cantavano sentendosi dominati e oppressi dagli austriaci. E chi vieterebbe, oggi, di farlo cantare ai profughi ucraini cacciati dai russi, con testo e lingua loro?
L’Ouverture 1812 di Ciajkovskij deve assolutamente continuare a suonare, e dovunque. Se dovesse smettere, fra l’altro trascinerebbe con sé quell’enorme quantità di musica che nei secoli ha rappresentato tiranni e vittime, spesso gli uni diventati le altre, le seconde diventate i primi. Frau Musika, come diceva Bach, non è affatto d’accordo, perché usa parlare a tutti senza ambiguità di sorta; e spesso è anche un po’ più intelligente di certi musicisti.
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