Bagheria, grosso centro urbano alle porte di Palermo, condensa al suo interno gran parte delle contraddizioni della Sicilia. Patria di intellettuali, artisti e scrittori, come Renato Guttuso, Giuseppe Tornatore, Dacia Maraini, Ignazio Buttitta; residenza estiva delle antiche famiglie aristocratiche palermitane, che nel Settecento vi costruirono magnifiche ville, Bagheria è anche simbolo di illegalità e degrado urbano e roccaforte della fazione corleonese di Cosa nostra, tanto che è qui che Bernardo Provenzano ha trascorso alcuni anni della sua latitanza.
Ebbene pochi si sarebbero aspettati che proprio in questo paese, dove il cemento abusivo copre i giardini delle ville settecentesche e un sindaco pentastellato le scritte sui muri inneggianti alla mafia, potesse partire una nuova stagione di ribellione contro il pizzo. Stiamo parlando dell’operazione antimafia, denominata “Reset II”, che ha portato all’arresto di ventuno esponenti di Cosa nostra. L’elemento di novità dell’indagine è costituito dal fatto che, per la maggior parte degli episodi estorsivi, la dinamica delittuosa è stata ricostruita grazie al contributo attivo degli imprenditori locali, i quali hanno trovato il coraggio, dopo anni di sottomissione, di ribellarsi all’imposizione mafiosa. La scelta di collaborare con le forze dell’ordine è avvenuta infatti in trentasei delle cinquanta estorsioni documentate dai carabinieri.
Quella degli imprenditori di Bagheria è soltanto l’ultima in ordine di tempo di una serie di ribellioni al racket scaturite dal basso. Sempre più imprenditori siciliani, infatti, hanno deciso di collaborare con i magistrati. Come dimenticare ad esempio il coraggio dei ristoratori palermitani Vincenzo Conticello e Natale Giunta che, in tempi diversi, hanno denunciato i propri aguzzini, esponendosi in prima persona? Tra le vicende più significative, può essere ancora ricordata quella del pasticcere Santi Palazzolo, titolare di un esercizio commerciale all’interno dello scalo aeroportuale di Punta Raisi, che ha denunciato il vice presidente della società che gestisce l’aeroporto palermitano, Roberto Helg, per avergli richiesto una tangente di 100 mila euro per il rinnovo della concessione. Helg non è un mafioso, è stato il presidente della Camera di Commercio e, cosa più interessante e ricca di spunti di riflessione, prima di essere arrestato in flagranza di reato era considerato un esponente di punta dell’antimafia siciliana.
Oggi, dunque, la denuncia è un’opzione sempre più ricorrente tra gli imprenditori. Possiamo identificare almeno due elementi che hanno determinato questo cambiamento. Da un lato, pesa probabilmente la situazione attuale di Cosa nostra. L’azione martellante delle forze dell’ordine ha privato le cosche dei personaggi più autorevoli, e adesso si trovano in difficoltà nell’esercizio del controllo del territorio. Per inciso, l’indebolimento dell’autorità mafiosa non si accompagna a una diminuzione della violenza. Le cronache testimoniano anzi una maggiore efferatezza da parte delle nuove leve. Pestaggi e aggressioni sono lo strumento più rapido per accreditarsi e legittimare la leadership all’interno del clan.
Dall’altro lato, a incentivare la reazione degli imprenditori ha contribuito la percezione di un mutato contesto culturale, promosso e sostenuto dal movimento antiracket, oltre che dai successi delle forze dell’ordine, che vede in prima linea il Comitato Addiopizzo. I ragazzi palermitani hanno intaccato quel generale clima di omertà e condizionamento, introducendo, nella lotta al racket delle estorsioni, un modus operandi differente, basato su alcuni concetti innovativi come quello del consumo critico.
C’è però un altro lato della medaglia che rischia di mettere in ombra e di compromettere i successi delle forze dell’ordine. La proliferazione delle mafie si basa su diversi fattori: una diffusa percezione di insicurezza da parte dei cittadini, una risposta debole e contradditoria da parte delle istituzioni; la presenza di un’area grigia che, come scrive Rocco Sciarrone, «coinvolge figure diverse, che agiscono ai confini del lecito e dell’illecito, facendo ricorso a scambi corrotti e ad “alleanze nell’ombra”» (Alleanze nell’ombra, Donzelli, 2014, p. 25). Se la risposta delle istituzioni è stata ed è tutt’altro che debole, almeno per quel che concerne l’attività di contrasto; per quanto riguarda, invece, le relazioni di complicità e collusione lo scenario attuale è tutt’altro che confortante.
Quello di Helg, ad esempio, non è un episodio isolato. Recentemente, in Sicilia, ma non solo, sembrerebbe essersi scoperchiato il vaso di Pandora. Citiamo soltanto i casi più noti. Risale a inizio settembre la notizia della sospensione dal suo incarico del presidente della sezione misure di prevenzione patrimoniale del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, indagata con l’accusa gravissima di aver trasformato la gestione dei beni sequestrati in un affare di famiglia. Ed è in carcere per presunta truffa aggravata ai danni dello Stato Matteo Tutino, il primario del reparto di Chirurgia plastica dell’ospedale Villa Sofia. Tutino avrebbe cercato di manovrare, insieme all’ex dirigente dell’ospedale, Giacomo Sampieri, la sanità siciliana, amministrata fino a qualche mese fa dall’assessore Lucia Borsellino. Vi è poi la vicenda ancora oscura che riguarda il leader di Confindustria Sicilia, Antonello Montante, ex paladino della legalità, sotto inchiesta per concorso in associazione mafiosa. Qualche settimana fa infine sono finiti ai domiciliari per corruzione due tra i più importanti imprenditori siciliani, Mimmo Costanzo e Domenico Bosco, nell’ambito di una inchiesta sugli appalti Anas che ha portato all’arresto del presidente della Rete Ferroviaria Italiana, Dario Lo Bosco.
C’è, in sostanza, un’area grigia inesplorata e inquietante su cui occorre avviare una riflessione seria. Non tutte le vicende appena richiamate tirano in ballo la mafia. In altri tempi, i clan avrebbero probabilmente avuto un ruolo di primo piano in questi grandi affari. Ci si potrebbe domandare a questo punto qual è il legame tra estorsioni e corruzione. Ebbene, il pagamento del pizzo è talvolta il primo momento di una relazione che può svilupparsi in un intreccio di rapporti corruttivi e collusivi. Perché chiedere a un imprenditore di denunciare, mettendo a rischio la propria vita e quella dei suoi familiari, quando potrebbe sedersi al tavolo degli interessi reciproci e degli scambi illeciti traendone cospicui vantaggi in termini di impunità, incolumità e ricchezza personale? Pizzo e corruzione sono dunque le due facce della stessa medaglia: ecco allora che, se non vogliamo vanificare i successi ottenuti sul fronte della resistenza al fenomeno estorsivo, è necessario fare chiarezza su queste vicende in maniera completa. La risposta delle forze dell’ordine c’è stata. Ma occorre fare in modo che queste relazioni non possano più ripetersi, o quantomeno che siano sempre più difficili. La ribellione degli imprenditori di Bagheria è un passo importante, ma ne restano ancora parecchi da compiere.
Riproduzione riservata