La scuola senza riforma è il titolo dell’articolo che Luigi Pedrazzi pubblica nel 1951 sul primo numero del «Mulino» formato rivista. Siamo alla fine del ministero Gonella (1946-1951), che aveva lanciato una grande inchiesta sulla condizione della scuola, e aveva quindi proposto un piano generale di riforma. Un pilastro importante di tale piano è la creazione di una scuola materna statale, la cui istituzione però non è resa obbligatoria ovunque. Inoltre, nonostante si parli già da tempo di unificare la scuola media inferiore, eliminando da essa l’insegnamento del latino, proprio su questo fronte la riforma Gonella è molto timida: la scuola media inferiore rimane suddivisa in tre indirizzi (normale, classico, tecnico), mantenendo in sostanza lo schema creato da Bottai nel 1940, che a sua volta è uno sviluppo della legge Gentile del 1923. Resta così un impianto in cui la separazione dei destini sociali, tra chi continua a studiare e chi viene avviato al lavoro, si decide a 11 anni.
Pedrazzi denuncia con lucidità questi limiti, confermati dai fatti successivi: la riforma, per quanto timida, non vedrà la luce. La conseguenza è la «scuola senza riforma»: i governi del Dopoguerra non realizzano le promesse della Costituzione («La scuola è aperta a tutti»: art. 34), non iniziano a costruire una società democratica, ma si aggrappano al passato per evitare scosse nella morsa della Guerra fredda; lo sguardo lungo degli oppositori comunisti, per cui la scuola esistente è destinata a cadere con l’imminente caduta del capitalismo, non aiuta a riformarla nel dettaglio.
Il titolo dell’articolo di Pedrazzi è sconfortante. Dopo settant’anni, in un certo senso, la nostra scuola è ancora «senza riforma». Non è una formula retorica, gettata lì per spirito di polemica.
Quando nasce lo Stato unitario, la classe dirigente liberale ha già pronto il modello di scuola che coincide con la sua idea di società: la Legge Casati viene approvata nel 1859 nel Regno di Sardegna, durante la Seconda guerra di indipendenza, ancor prima che nasca il Regno d’Italia, a cui verrà applicata. È una legge generale di ordinamento, che definisce il sistema scolastico da cima a fondo, e coglie probabilmente alcune strutture profonde della società italiana se certi suoi elementi (i tre gradi di scuola, per esempio) arrivano fino a noi.
Lo stesso avviene con il fascismo: nel 1923, poco dopo l’ascesa al potere, il governo Mussolini emana la «sua» legge sulla scuola, la già citata riforma Gentile, con la serie dei suoi decreti attuativi negli anni seguenti. Anche qui, una legge generale, che impone subito al Paese il modello di scuola voluto dal fascismo: c’è una continuità, in parte, con il passato, ma in ogni caso c’è un grande intervento di riordino per affermare un’idea di società, tradizionale e gerarchica.
Le gabbie che impediscono alla scuola italiana di essere democratica hanno la stessa origine: la sua mancata riforma, cioè l’incapacità della Repubblica di darsi la "sua" scuola, senza farsi fagocitare da un passato destinato ad altri modelli di società
Non succede lo stesso con la Repubblica. La riforma Gonella sembra il punto di avvio di un percorso, ma abbiamo visto con quali timidezze, e poi si conclude con un nulla di fatto. Stesso destino avrà il Piano della scuola del ministro Moro nel 1959. Un momento in cui sembra sbloccarsi una vera prospettiva riformatrice è il centrosinistra, che riesce a realizzare la scuola media unificata nel 1962; poco dopo nascerà la scuola materna statale (1968). Gli anni Settanta lasciano in eredità altre norme: tempo pieno, organi collegiali, statuto giuridico dei docenti, inclusione dei disabili ecc. Ma non riescono a realizzare una riforma generale di ordinamento: la scuola secondaria superiore, dopo diversi tentativi falliti, resta immutata. Tra gli anni Ottanta e Novanta vengono riformate la scuola primaria e materna; per le superiori invece si apre un cantiere enorme di sperimentazioni, che ne rendono il quadro molto vario senza cambiarne la struttura.
Il ministero Berlinguer, dal 1996, avvia finalmente un processo di riforma generale, che riguarda tanto la governance (autonomia scolastica) quanto l’ordinamento (riforma dei cicli, obbligo, esame di Stato). Questa sembra essere, con cinquant’anni di ritardo, la «riforma repubblicana» della scuola. Eppure non è così. La vera parte di ordinamento, cioè la riforma dei cicli, che sostiene quella dell’obbligo, viene abrogata nel 2003 dal ministero Moratti, che vara però un’altra legge di impianto generale: anch’essa, benché in modo più conservativo, prevede una riforma della scuola secondaria di secondo grado. Neanche questa resiste però ai cambi di maggioranza, e il «riordino» Gelmini del 2008-2010 di fatto lascia ancora la scuola secondaria di secondo grado non riformata, lascia immutata la successione dei cicli secondo il vecchio schema (ottocentesco) elementare-media-superiore, non intacca il primato del modello liceale, non riesce ad affermare su tutto il territorio nazionale un solido canale di formazione professionale. E se è vero che negli anni Duemila la scuola dell’infanzia è la giusta evoluzione della scuola materna, non si riesce però a creare un’offerta soddisfacente di nidi in tutto il Paese.
la scuola repubblicana è cresciuta e cambiata come le periferie delle nostre grandi città: disordinatamente, a caso, senza un piano regolatore, con alcune parti ipertrofiche e altre appena abbozzate, senza una visione generale che ne incanali il processo, che assicuri l’equilibrio del tutto
Insomma, la scuola repubblicana è cresciuta e cambiata come le periferie delle nostre grandi città: disordinatamente, a caso, senza un piano regolatore, con alcune parti ipertrofiche e altre appena abbozzate, senza una visione generale che ne incanali il processo, che assicuri l’equilibrio del tutto. Alla fine del percorso siamo in un altro mondo, che non ha quasi niente a che fare con quello precedente. Ma non sappiamo bene come e perché ci siamo arrivati, e lottiamo con problemi che, nonostante il cambiamento, rivelano ancora la nostra distanza da una «scuola della Repubblica» che non abbiamo saputo pensare in generale fin dall’inizio.
La scuola di cui parla Pedrazzi settant’anni fa è certo molto diversa dalla nostra. Nel 1951 i tassi di scolarizzazione sono ancora molto bassi: solo il 10% dei giovani tra i 14 e i 19 anni la frequenta. È quindi ancora una scuola segnata dalla netta contrapposizione tra le classi popolari e l’élite alto-borghese: le prime frequentano la scuola elementare (con tassi di evasione dell’obbligo del 20%), e si separano dalle seconde, nel loro destino formativo e sociale, al momento della scelta della scuola media. Le seconde fanno tutto il cammino dalla scuola media ai licei all’università, vanno a formare le «classi dirigenti». Oggi, all’inizio del terzo decennio del Duemila, abbiamo raggiunto da poco la scolarizzazione di massa (solo dal 2004 il 93% dei giovani tra i 14 e i 18 frequenta le scuole superiori), grazie alla riforma della scuola media unificata e alla riforma dell’obbligo avviata da Berlinguer nel 1999. Ma l’ordinamento generale della scuola italiana non è mai stato riformato, come detto: manteniamo una scuola media che non riesce a porsi veramente in continuità con la scuola primaria, benché faccia parte dello stesso primo ciclo, e che nel suo impianto disciplinarista porta ancora il marchio della vecchia media non unificata; manteniamo una scuola superiore in cui, in piena età dell’obbligo, tra i 14 e i 16 anni, abbiamo le punte più alte di abbandono scolastico e di discriminazione per classi sociali ed etnia, a causa di un sistema eccessivamente differenziato in indirizzi rigidi, di un multi-disciplinarismo enciclopedico e di un primato del modello liceale che ormai fa a pugni con la realtà. La formazione professionale è troppo debole, nel terzo ciclo quasi inesistente.
Tutte queste gabbie che impediscono ancora alla scuola italiana, diventata di massa, di essere democratica, hanno la stessa origine: la sua mancata riforma, cioè l’incapacità della Repubblica di darsi la «sua» scuola, senza farsi fagocitare da un passato destinato ad altri modelli di società.
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