Negli ultimi anni le vicende curde hanno ottenuto (persino in Italia!) l’attenzione dei media e degli studiosi: lavori di eccellente qualità hanno provato a evidenziare le specificità e le connessioni delle lotte dei curdi in diversi contesti. Il plurale è d’obbligo: per quanto variamente legate fra loro, queste vicende sono inseparabili da quelle dagli Stati nei quali si svolgono e con i quali condividono necessariamente un comune destino. Siria, Turchia, Iraq e Iran: chi prova a comprendere storia e futuro dei curdi, è obbligato a fare i conti con la realtà di un popolo diviso praticamente da sempre, le cui vicende si comprendono solo all’interno di quelle, a loro modo molto complesse, di questi Stati.
Thomas Schmidinger, austriaco, che i lettori italiani conoscono perché ha scritto anche per questa rivista, si è concentrato in questi anni sulle vicende dei curdi “siriani” e l’editore Meltemi presenta meritoriamente in traduzione uno dei suoi ultimi lavori. Il testo è dedicato alla regione di Afrin, amministrata secondo i criteri del confederalismo democratico dal 2012, dopo cioè il ritiro dell’esercito siriano, e poi al centro dell’operazione Ramoscello d’ulivo (sic!) dell’esercito turco ai primi del 2018, che ha messo fine a quella esperienza e che Schmidinger descrive e analizza in profondità, in particolare soffermandosi sulle sue conseguenze.
Quella del 2018 è stata (purtroppo) una delle tante. La prossima è attesa praticamente dall’estate scorsa e dovrebbe condurre, secondo le opinioni più radicali, alla quasi completa occupazione della fascia di terra di trenta chilometri al confine tra Siria e Turchia, più volte presentata dal presidente Erdoğan come necessaria per la “sicurezza” turca, senza tuttavia mai presentare prove a sostegno della concretezza di questa minaccia.
Primo merito del lavoro di Schmidinger è appunto quello di concentrarsi su quest’area geografica, situata a Nord Ovest di Aleppo, sfuggendo la tentazione di un’opera generale sulla rivoluzione curda in Siria: la montagna dei Curdi, che dà il titolo al testo, è per l’appunto chiamata Kurd Dagh termine con il quale veniva indicata nell’Impero ottomano questa regione. Proprio in Siria si sono anticipate nel corso dei decenni tutta una serie di pratiche, poi diffusesi anche negli altri Stati confinanti, finalizzate a eliminare, letteralmente, il “problema” curdo. Campagne di arabizzazione forzata, ad esempio, o il ritiro a migliaia di persone della stessa cittadinanza. Ecco perché è stato scritto che con il 2012 e la nascita dell’autogoverno nel Nord della Siria i curdi sono sbucati fuori dal nulla.
Concentrandosi su Afrin, l’autore riesce a descrivere una vicenda specifica che tuttavia assume una dimensione più generale, tant’è che lui stesso scrive nell’introduzione che Afrin è una “sorta di mini Siria” (p. 15), utile cioè per capire in piccolo le dinamiche politiche e geopolitiche che hanno attraversato la guerra in Siria da ormai oltre un decennio, con le relazioni infrasiriane e l’attività delle potenze regionali e di quelle internazionali. Riusciamo così ad avere un’idea molto dettagliata di un’area che per secoli è stata dentro l’Impero ottomano e che da poco più di un secolo è attraversata da confini puramente politici ma sempre più militarizzati. Confini che non sempre riescono a dividere comunità molto forti, come quella curda, che seppur lacerata politicamente riesce a preservare una profonda solidarietà tra i suoi membri.
Afrin è “una sorta di mini Siria”, utile cioè per capire in piccolo le dinamiche politiche e geopolitiche che hanno attraversato la guerra in Siria da ormai oltre un decennio
Anche dal punto di vista storico la parabola tracciata da Schmidinger è molto chiara. Dopo aver analizzato brevemente la fase ottomana, l’attenzione si sposta soprattutto sulla vicenda curda nella Siria di Assad padre, i contatti in particolare con i curdi iracheni e quelli turchi, l’emergere della figura di Ocalan e del Pkk. Come sempre, queste vicende vanno necessariamente lette tramite una prospettiva più generale che chiama in causa le potenze regionali e non solo:
“Il regime di Hafiz al-Assad vedeva Öcalan e il Pkk come una pedina utile nello scontro con la Turchia, dalla quale si sentiva minacciato a causa del Gap – Progetto del Sud Est anatolico. Ove concluso, questo progetto di sviluppo delle regioni curde del Sud Est anatolico, che era sul tavolo già dalla fine degli anni Settanta e che fu lanciato all’inizio degli anni Ottanta, includerà ventidue dighe e diciannove impianti idroelettrici sul Tigri e sull’Eufrate, fiumi che scorrono verso la Siria e l’Iraq. Questo progetto darebbe alla Turchia il pieno controllo delle più importanti risorse idriche del Medio Oriente” (p. 68).
Con la fine degli anni Novanta, vale a dire a partire dall’arresto di Ocalan e la necessaria evoluzione politica del Pkk, lo scenario cambia nuovamente. Da qui la storia si complica e arricchisce con l’inizio della rivoluzione siriana e l’avvio dell’esperienza del confederalismo democratico (a partire dal 2012) fino poi alla citata operazione turca del 2018. Con la quale inizia una nuova drammatica storia, nella quale sono protagoniste anche le grandi potenze come gli Stati Uniti, che hanno annunciato con il presidente Trump nel 2017 un (poi divenuto parziale) ritiro dalla regione (il logico presupposto delle operazioni turche), e la Russia di Putin.
Inoltre, utilizzando i rifugiati siriani, originari di altre zone del Paese e prevalentemente arabi, il governo di Ankara con le sue operazioni punta a modificare radicalmente gli equilibri demografici, obbligando i curdi alla fuga e “arabizzando” demograficamente ma “turchizzando” politicamente quei territori con altri siriani “rimpatriati” nel Nord del Paese: la Turchia, com’è noto, ha ospitato e continua a ospitare oltre tre milioni e mezzo di profughi siriani dall’inizio della guerra civile.
La cosa ha avuto ripercussioni anche nella regione autonoma curda dell’Iraq che ha dovuto fare i conti, negli ultimi anni, con un crescente flusso di rifugiati. Proprio la regione curda nel Nord Iraq è stata per anni una sorta di modello: una realtà politica dotata di sufficiente autonomia da Baghdad poteva costituire un esempio istituzionale anche per i curdi siriani, scenario insostenibile per la Turchia e quindi da contrastare ad ogni costo, anche con l’utilizzo spregiudicato in funzione anticurda di miliziani dello Stato islamico.
Le modalità concrete con le quali si sono realizzate le operazioni turche suggeriscono a Schmidinger, comunque, che il governo di Ankara è deciso a restare nella regione a tempo indeterminato: con l’apertura di scuole (secondo il sistema turco), università e la costituzione di forze di sicurezza leali alla Turchia. Come già in passato, si tratta di una nuova pulizia etnica ai danni della popolazione curda.
Il testo ricostruisce anche i rapporti internazionali, complicati e ancora “in evoluzione” tra le forze curde e le potenze internazionali
Scegliendo Afrin, Schmidinger adotta una determinata angolazione per raccontare la storia della Siria e dei curdi: ne vieni fuori quindi un’analisi interessante soprattutto per analizzare gli ultimi anni. Mi permetto di sottolineare particolarmente due ulteriori elementi di estremo interesse del libro. Innanzitutto, l’autore chiarisce i rapporti politici tra i vai gruppi curdi, spesso conflittuali e non solo tra quelli siriani e iracheni. Come già nella regione autonoma le rivalità tra i gruppi curdi sono state e rappresentano tuttora un problema enorme allo sviluppo dell’area e pesano – come dimostra il tentativo di un referendum per uno Stato kurdo celebrato nella regione autonoma nel 2017 – sulle possibilità di dare senso e prospettiva alla questione “nazionale”. Pur essendo un testo certamente “partigiano”, non privo di una evidente simpatia per la causa curda e, specificamente, per alcune parti in causa, quello di Schmidinger non è cieco di fronte alle conseguenze delle divisioni fra i gruppi curdi e ad alcune, necessarie, ambiguità degli ultimi anni. Il testo, inoltre, ricostruisce anche i rapporti internazionali, complicati e ancora “in evoluzione” tra le forze curde e le potenze internazionali, Stati Uniti e Russia, con un impatto immediato sulla divisione in zone d’influenza geopolitica del Nord della Siria.
Un testo dunque utilissimo, soprattutto di questi tempi, per comprendere meglio non solo quanto è accaduto ma anche quello che potrebbe succedere, visti i progetti mai ritirati del presidente Erdoğan che, come già ricordato, potrebbe decidere di avviare un’altra campagna.
Peccato che l’Europa non ascoltò la voce della ministra tedesca Kramp-Karrenbauer che propose una missione internazionale nel Nord della Siria. Una proposta, tramontata in poche ore e boicottata dagli stessi alleati socialdemocratici della ministra, certamente molto complicata e forse persino un po’ ingenua, ma che avrebbe quantomeno spinto la politica europea a occuparsi con maggiore attenzione e pragmatismo di quest’area del mondo. Il libro di Schmidinger è un buon inizio.
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