Elena la sposa poco remissiva di Cesare; Elena la stramba, l’intemperante, l’irriducibile; Elena l’ebrea di Piazza Giudia. Oggi venditrice ambulante, domani rammendatrice; dai comportamenti così inusuali da meritare quattro ricoveri manicomiali in pochi anni; così temeraria da affrontare i fascisti, non esitando a menar le mani, quando si tratta di proteggere i suoi correligionari, nel clima pesantemente anti-ebraico che si respira nella Roma degli anni Trenta, ben prima della promulgazione delle leggi razziali.
La vita di questa donna “del tutto lontana dagli stereotipi femminili imposti dall’epoca” e che ebbe “un solo pensiero: lottare contro le ingiustizie e le prepotenze in difesa della gente di 'piazza'” (p. 60) ci è (finalmente) restituita nell’accurato lavoro storiografico di Gaetano Petraglia, funzionario dell’Archivio centrale dello Stato: La matta di Piazza Giudia. Storia e memoria dell’ebrea romana Elena Di Porto (Giuntina, 2022). Diviso in tredici capitoli che ripercorrono le tappe principali della biografia di Elena e corredato da un’appendice documentaria che contiene anche la riproduzione di alcune fotografie, il volume ha potuto godere, oltre che della evidente competenza archivistica del suo autore (che ha saputo muoversi sapientemente tra archivi comunali, archivi di Stato, Archivio storico della Comunità ebraica di Roma), delle numerose testimonianze orali, filmate e scritte di parenti e conoscenti di Elena. Nella sua comunità di origine, di Elena – della sua originalità, della sua sfrontatezza, della sua audacia – era ed è serbata memoria. Si trattava, appunto, di ricostruirne la storia e l’intrecciarsi con la storia d’Italia.
Il volume ha potuto godere, oltre che della competenza archivistica del suo autore, delle numerose testimonianze orali, filmate e scritte di parenti e conoscenti di Elena
Elena non ha ancora compiuto 28 anni quando, il 10 giugno del 1940, mentre Mussolini annuncia l’entrata in guerra dell’Italia, è arrestata al Portico d’Ottavia, insieme ad altri 29 ebrei romani già segnalati. Per evitare che possa turbare l’ordine pubblico, dando luogo a incidenti o iniziative anti-patriottiche, viene “avviata in località di concentramento” (p. 77). La sua destinazione sarà dapprima Lagonegro, dove incontrerà numerosi ebrei stranieri condannati, come lei, all’“internamento libero” (uno dei meravigliosi ossimori del lessico fascista). Poi viene destinata al piccolo centro lucano di Gallicchio, dove si avvicina molto alla sua ospite, Carmela, che, in seguito all’emigrazione del marito in America, vive sola con i tre figli e arrotonda anche accettando di accogliere i confinati. Ma Elena soffre di coliche epatiche e Gallicchio, dove non c’è un medico né una farmacia, è inadatto per lei. Seguirà, come per tanti suoi compagni di sventura, una peregrinazione in altri piccoli comuni e quindi il trasferimento in realtà concentrazionarie periferiche: per lo più ville padronali di campagna che venivano riutilizzate allo scopo – il ché ci dà un’idea anche della ampiezza e della frammentazione dei luoghi e dei modi di detenzione per ebrei e oppositori politici che il regime fu in grado di organizzare.
Il 25 luglio 1943, quando il Gran consiglio decreta di fatto la fine del fascismo, Elena è confinata a Fiastra, un paesino del Maceratese. Di lì a poco il nuovo governo prosciolse confinati e internati ed Elena tornò a Roma, dove “si respirava un clima di sospensione. Da una parte si viveva con speranza una illusoria normalità, dall’altra avanzano fame, scetticismo e paura di nuove incursioni aeree” (p. 124), dopo quelle del 19 luglio e del 13 agosto, che avevano ucciso e ferito migliaia di romani. Di quei giorni di agosto non sappiamo con precisione: Elena riabbraccia i due figli, che in tre anni ha potuto vedere solo una volta, e tenta di riorganizzare la sua vita a Roma, forse mantenendosi con il contrabbando di sigarette. È il 9 settembre, all’indomani dell’annuncio dell’armistizio, che Elena torna prepotentemente in scena: alla testa di un gruppo di un centinaio di ebrei, assalta un’armeria, da cui saranno prelevati una settantina di fucili da caccia. Si era diffusa voce che i tedeschi stessero per entrare a Roma – cosa che effettivamente avvenne il giorno successivo, iniziando così nove mesi di occupazione – e gli ebrei romani volevano tentare di difendersi, unendosi alle forze antifasciste che si stavano radunando a Porta San Paolo. Elena sarà arrestata e tradotta a Regina Coeli, da cui uscirà il 28 settembre, lo stesso giorno in cui gli ebrei della Capitale consegnarono a Kappler quei 50 kg di oro che avrebbero dovuto garantire loro l’incolumità: seppe così delle vicende che avevano segnato il Ghetto in quelle settimane e visse in loco quelle seguenti, che si sarebbero rivelate decisive.
È all’indomani dell’annuncio dell’armistizio che Elena torna prepotentemente in scena: alla testa di un gruppo di un centinaio di ebrei, assalta un’armeria, da cui saranno prelevati una settantina di fucili da caccia
Non ci sono prove documentarie, ma una ridda di indizi porta a identificare Elena Di Porto con la Celeste che Giacomo Debenedetti, nel suo 16 ottobre 1943 (prima edizione 1944), fa accorrere da Trastevere al Ghetto, scarmigliata e in lacrime, ad annunciare l’imminente deportazione della comunità. Nessuno le credette. All’alba del giorno successivo tre camion tedeschi entrarono nel Ghetto e diedero avvio al rastrellamento. Elena non era in quella lista di ebrei da prelevare e dapprima si prodigò per portare conforto a quanti erano già stipati nei camion. Poi, raccontano alcuni testimoni, vide che la cognata era stata presa con i figlioletti e forse cercò di convincerla a lasciarglieli. Al suo rifiuto, si autodenunciò a un militare nazista in quanto ebrea e si unì alla sua gente. Fa parte dei 1.023 ebrei catturati quel giorno e deportati ad Auschwitz. Solo 16 tornarono, e lei non fu tra questi. Probabilmente fu avviata alle camere a gas già all’arrivo al campo di sterminio, il 23 ottobre.
Sono passati ottant’anni da quel primo sabato nero che la comunità ebraica romana fu costretta a patire. Elena ci lascia un esempio luminoso nella sua aspirazione mai rinnegata alla libertà, nella sua incapacità di sopportare vessazioni, nella sua ostinazione nell’evitare di conformarsi. Una donna a cui è capitato di confrontarsi con alcuni momenti decisivi della storia recente degli ebrei di Roma, ma di cui ha scelto fino in fondo di caricarsi sulle spalle il destino: “una sorta di missione civile […] compiuta con tenacia, determinazione e generosità” (p. 165).
Riproduzione riservata