Tra gli storici dell’Italia contemporanea della sua generazione, Paolo Pombeni ha certamente una sua identità precisa, che si può riassumere nella capacità tutta politologica di leggere e di interpretare quello che potrebbe chiamarsi «il gioco dei partiti», o comunque delle forze politiche in campo nel secondo Novecento italiano. Ciò però non si risolve mai in un approccio astratto né tanto meno ideologico.
Anzi, anche in questo suo nuovo libro (L’apertura. L’Italia e il centrosinistra 1953-1963, Il Mulino, 2022, pp. 293), scritto con penna felice e con l’acume consueto, si possono ravvisare come due piani paralleli: in uno, quello più visibile al lettore, che costituisce la trama stessa del libro, egli riassume le vicende politiche del dopoguerra, dalla crisi dell’ultimo governo De Gasperi (un disperato tentativo di monocolore democristiano subito fallito per il voto negativo della Camera) sino alla faticosa costruzione della prospettiva dell’apertura a sinistra (da cui il titolo del volume) e alla formazione del primo governo Moro (dicembre 1963); nell’altro piano invece scorre la storia più generale del decennio: l’uscita dagli anni durissimi del dopoguerra, il miracolo economico che cambiò profondamente la società italiana, il profilarsi del consumismo e i suoi effetti sulla distribuzione delle classi e sulla loro cultura.
Il mondo dei partiti, sia di quelli allora al governo in base alla formula centrista (o di quel che ne restava in vita), sia di quelli di opposizione, sentiva profondamente il respiro profondo della società che cambiava. Ma subiva anche i condizionamenti del passato, che nel caso della politica italiana e del suo maggior partito, la Democrazia cristiana, fu impersonato dalla Chiesa pregiovannea (e in parte anche da quella giovannea, giacché il nuovo papa incontrava nell’establishment dei suoi cardinali, per lo più italiani, una tenace quanto cocciuta resistenza). In questa strettoia si muovevano i leaders politici: Scelba, Gronchi, Segni, Fanfani, Taviani, il giovane Moro, l’avventuriero Tambroni, i capi dei partiti alleati (Saragat, Pacciardi e poi La Malfa, Malagodi) e di quelli di opposizione (Togliatti soprattutto, e poi un Nenni impegnato nella lunga marcia di fuoruscita dal frontismo verso il governo).
Dietro di loro si intravedevano le seconde file, i luogotenenti, il variegato mondo dei vari partiti. E con essi emergeva l’intreccio intricato, tra e nei partiti, dei gruppi e delle correnti, da cui scaturivano le crisi ricorrenti degli esecutivi (l’Italia è – lo si sa – paese di governi brevi, un anno, poco più poco meno), le aperture e le chiusure, le avanzate e le prudenti ritirate.
Di quel complesso periodo di transizione che fu il decennio 1953-1963 (dopo De Gasperi, prima di Moro) il libro traccia un ritratto esemplare
Di quel complesso periodo di transizione che fu il decennio 1953-1963 (dopo De Gasperi, prima di Moro) il libro traccia un ritratto esemplare. Le conclusioni sono misurate e al tempo stesso assai puntuali: non si può parlare della svolta del 1963 come di una vittoria di Pirro, ma neanche ignorare che quello slancio riformatore fu subito «decisamente ridotto e ridimensionato». Emerse negli anni successivi «la viscosità del nostro quadro non solo politico, ma anche sociale»: Moro – ricorda Pombeni citando Andreatta – usava per descrivere l’Italia una metafora: «il Paese era come un castello di carte: si poteva cercare di costruire un ulteriore piano, ma bisognava appoggiare le carte con grande delicatezza e trattenere il respiro. Altrimenti crollava».
Nessuno come Paolo Pombeni possiede le chiavi per raccontare questo complesso scenario, mai risolvendolo in una mera cronaca fine a se stessa ma, anzi, accompagnandolo con note illuminanti, facendone emergere diversi dettagli spesso rivelatori, interpretandolo con netti giudizi da storico di razza.
Va notato nel libro l’uso intelligente di una fonte rara e in gran parte inedita, cioè l’archivio del Mulino, il gruppo di giovani intellettuali in prevalenza bolognesi, cattolici ma anche laici, che in quel decennio giocò un ruolo decisivo
Le fonti sono prima di tutto gli atti parlamentari, i documenti interni ed esterni dei partiti, i diari personali (per quanto disponibili) dei leader. Meno contano gli archivi: Pombeni non è tanto storico di archivi, ma va notato in compenso nel suo libro l’uso intelligente di una fonte rara e in gran parte inedita, cioè l’archivio del Mulino, il gruppo di giovani intellettuali in prevalenza bolognesi, cattolici ma anche laici, che in quel decennio giocò un ruolo decisivo (basti l’incontro che organizzò con gli emissari del neopresidente Kennedy per modificare il veto americano all’apertura a sinistra).
Ben scritto, ricco di particolari anche minuti ma mai fini a sé stessi, attento al carattere e alle personalità dei protagonisti, il volume costituisce un originale contributo a quella storia della Repubblica che vanta – è vero – una ormai cospicua letteratura storiografica ma che tuttavia appare ancora, in molti risvolti, meritevole di essere indagata.
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