Negli ultimi anni sono state pubblicate negli Stati Uniti alcune interessanti ricerche sociologiche sul tango che ne hanno esplorato diversi aspetti: l’industria del turismo e della moda (i «pellegrinaggi» organizzati degli appassionati a Buenos Aires), i nuovi flussi migratori alimentati dai maestri argentini e uruguaiani e dalle loro famiglie, il profilo socio-demografico dei frequentatori delle milonghe (i luoghi al chiuso nei quali si balla il tango) o dei luoghi pubblici all’aperto dove essi convergono in occasione dei flashmob. Questa ampiezza di temi di ricerca è del tutto comprensibile se si pensa alla ampia diffusione geografica di questo ballo e al suo carattere di massa. Mancava tuttavia in questo panorama un libro, come quello di Davide Sparti (Sul tango. L’improvvisazione intima, Il Mulino, 2015), che affrontasse il tango come una specifica pratica simbolica di interazione tra due persone (non necessariamente un uomo e una donna) che entrano in contatto mediante l’abbraccio e l’energia dei corpi mediata dal suolo.
Benché l’autore del libro, professore di Epistemologia delle scienze sociali e di Teorie dell’identità nell’Università di Siena, dichiari fin dalle prime pagine di essere un ballerino (si intuisce esperto), il suo libro non si basa su una ricerca etnografica (anche se il capitolo quinto ha come titolo «Etnografia di una milonga»). La sua argomentazione si inserisce piuttosto in un filone di studi che egli conduce da tempo sulla «improvvisazione nella vita quotidiana» . In modo analogo a quanto sviluppato nei precedenti lavori sul jazz, Sparti usa il tango come occasione per riflettere sulla questione teorica più ampia e generale del carattere «in situ» e procedurale dell’agire sociale e in particolare su quel particolare tipo di agire che è l’improvvisazione nella vita quotidiana. In altre parole Sparti usa il tango come dispositivo per comprendere la fenomenologia dell’interazione. Nonostante l’indubbio interesse del capitolo primo, che ricostruisce l’origine sottoproletaria del tango rioplatense (che, nota l’autore, si distingue in ciò dal valzer che celebra l’unità della coppia borghese) e le sue radici afrodiasporiche e creole, è il nucleo centrale del libro a presentare le maggiori sfide teoriche. Per Sparti, al pari del jazz e di altre pratiche d’improvvisazione, il tango richiede un’accurata conoscenza della struttura e delle regole che informano il campo di riferimento, regole relative al corpo, alla maniera di muoversi, all’uso dello spazio e del tempo, all’interazione con gli altri (esiste ad esempio un preciso galateo della milonga al quale i ballerini devono attenersi). «In questo senso» – egli scrive – «quella del tango è un’improvvisazione strutturata» (p. 102). Esso «mette in luce non l’affrancamento dai vincoli nella speranza di approdare a uno spazio supposto libero e indifferenziato, ma la capacità di riconoscere vincoli e di esplorare le possibilità (di movimento) in essi implicite, che è poi la capacità di scoprire fino a che punto quei vincoli sono mobili (piuttosto che eliminabili)» (p. 105).
La natura contingente e improvvisa dell’incontro dei corpi nel tango – un incontro che mobilita in primo luogo energia, anche se il tango è più frequentemente associato alla sensualità – apre una varietà di opportunità di azione. Tale esperienza configura una particolare forma di socievolezza, nel senso dato da Simmel di modalità nel relazionarsi in cui non viene perseguito alcun obiettivo preciso, se non il gusto del «fare società». Nei quindici minuti circa di durata di una tanda (cioè della successione di tre o quattro esecuzioni consecutive durante le quali per convenzione la coppia rimane unita nel ballo) la concentrazione richiesta dalla esecuzione dei passi, dal controllo della sala per non urtare le altre coppie, e da tutto il resto riduce al minimo la conversazione tra i ballerini. Il tango si balla in silenzio. «Finita la tanda – scrive Sparti – siamo restituiti alla nostra vita di entità separate. La fusione, se emerge, emerge in quel tempo breve, e il legame intrecciato con l’altro nella sala da ballo raramente transita fuori della pista» (p. 157). Per questo motivo la milonga non è, come comunemente si ritiene, un luogo per cuori solitari alla ricerca di un partner. Essa è piuttosto la «celebrazione estetica della vita in comune» (p. 155).
In questo senso il tango, anche se l’autore non fa riferimento a questo tipo di letteratura, può essere annoverato tra quelle forme in chiave minore dello stare insieme in pubblico che Ash Amin e Nigel Thrift definiscono togetherness. Grazie a questi microincontri e alla condivisione di spazi fisici comuni gli individui giungono a negoziare significati, a condividere valori comuni e a fare esperienza dell’essere con l’altro. In queste interazioni in «chiave minore» non sono necessarie forme di elaborazione sul piano strettamente culturale e identitario del tipo prospettato dalle politiche di «riconoscimento» e del vivere con la differenza, così come nel tango, abbiamo visto, non è necessaria una conoscenza approfondita dell’individuo con il quale si balla. In tal senso la milonga può diventare un prototipo di luogo pubblico di conciliazione e integrazione nel quale le persone possono sentirsi libere dagli obblighi di riconoscimento reciproco tra estranei, diventare «indifferenti alle differenze» senza tuttavia rinunciare ad interagire e ad incontrare l’Altro.
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