«O moriamo di fame o moriamo di Coronavirus», ci ha detto R., abitante del campo di Cupa Perillo a Scampia.
Questa frase, dura ma efficace, è la conclusione di una lunga chiacchierata che abbiamo avuto la scorsa primavera, durante la prima fase di lockdown, con una donna rom che abita a Napoli da oltre vent'anni. L’abbiamo già usata come incipit per raccontare cosa accadeva in particolare nell’area Nord di Napoli, tra le zone più colpite dalla pandemia e dalla crisi economica conseguente, un territorio fragile e povero con un'altissima concentrazione abitativa e una grandissima quantità di giovani, una rarità in un Paese a bassa crescita demografica.
È un incipit che ci teniamo a riproporre come un piccolo mantra, senza alcuna retorica, così come ce lo ha detto schiettamente R., per essere chiari su che cosa significa essere veramente poveri in un’area del Sud Italia, dove le zone grigie, cioè tutta quell'enorme gamma di sfumature che abbracciano le cosiddette economie informali, la possibilità di muoversi ai margini e tra gli interstizi sono, di fatto, l’unica possibilità di sopravvivere per intere famiglie da almeno due generazioni, con una curva sicuramente discendente e una sostanziale immobilità sociale da ben prima della pandemia.
Non denunciare a tambur battente quello che centinaia di migliaia di persone affrontano quotidianamente per poter vivere, non solo nell’area Nord di Napoli, ma nell’intero Sud Italia – e anche in molte altre zone dove questo però è più chiaro con la disastrosa crisi sanitaria che evidenzia decenni di corruzione e malaffare – è una responsabilità politica e umana, locale e nazionale, con ricadute ben precise. Una responsabilità che coinvolge i principali organi di informazione e che fa passare per rimozione e/o omissione un’operazione assai più catastrofica: l’assenza totale di gestione, di investimenti e di visione politica. Insomma, è una precisa volontà quella di ignorare i poveri. Da subito, nella prima fase del lockdown, a Scampia a contatto con le comunità rom e italiane con cui da anni abbiamo stabilito relazioni e percorriamo insieme strade di cittadinanza e pedagogia attiva, avevamo già messo in luce – con una vasta rete sociale, vero e proprio presidio di mutuo appoggio permanente – e iniziato a divulgare con tutti i mezzi a nostra disposizione la “notizia” dell’impossibilità per molte famiglie di sopravvivere, in assenza totale di reddito e in vista di una sicura esclusione dalle misure di sostegno dei decreti governativi. Abbiamo lanciato una campagna di crowdfunding dal titolo provocatorio e significativo "#andràtuttobene… ma a chi?", in cui le comunità erano le destinatarie dei fondi raccolti e della solidarietà trasversale che ha preso corpo in maniera sempre più sostanziosa. Ma l’obiettivo, umano e politico, che l’azione di questa collettività vuole raggiungere, cioè il prendersi cura della comunità e non solo in termini materiali, è l’essenza stessa della vita in tempi di “resistenza”, in cui la tua sola sopravvivenza non conta nulla. D’altronde, ce lo insegnano da mesi ormai medici e personale sanitario che stanno rischiando tutto. Questa consapevolezza e l’ostinazione di voler raggiungere orizzonti di cambiamento ci ha fatto superare dissidenze e piccoli conflitti, e ci ha fatto andare avanti con una concreta pratica di mutualismo e solidarietà.
Da subito limiti, disuguaglianze, vulnerabilità di un sistema economico e sociale disuguale e disfunzionale, sono emersi in maniera molto precisa. Lavoratrici stagionali, imbianchini senza contratti, disoccupati di lungo corso, lavoratori regolari ma con datori di lavoro che non si sono presi il fastidio di fare la semplice richiesta di cassa integrazione e che non vogliono essere disturbati pena il licenziamento, anziani con un’unica pensione sociale che copre figlie, suoceri e nipoti, padri di famiglia percettori di incredibili redditi di cittadinanza – quaranta euro in certi casi per un intero nucleo familiare – abitanti regolari di rioni popolari, residenziali, occupanti, rom dei campi autorizzati e non autorizzati. Decine di migliaia di persone per le quali la pandemia significa un pericolo per la salute e il crollo di un intero, fragilissimo, sistema di vita, che finora si era mantenuto in equilibro precario grazie allo sforzo fisico e mentale, usurante, all’istinto di sopravvivenza e probabilmente anche alla famosa arte di arrangiarsi che crea prospettive imprevedibili.
Tutto questo, insieme al disastro della scuola e alla disuguaglianza provocata dalla Dad che, oltre al precipizio in cui ha fatto sprofondare la qualità dell’insegnamento, ha anche tagliato fuori centinaia di bambini e bambine sprovvisti di connessione, attrezzature adeguate, talvolta anche proprio di elettricità come per quelli che vivono in baracca, di case piccole e affollate, di genitori al lavoro e a volte poco competenti, è rimasto appannaggio di quella minoranza attiva che in qualche modo si è occupata di rilevare la questione, l’ha provata a gridare ai quattro venti e contemporaneamente ha cercato anche di risolvere il problema. Consentire di far portare un piatto a tavola con i pacchi alimentari e mantenere percorsi pedagogici con i più piccoli, i più penalizzati di tutti, attivando contemporaneamente riflessioni pedagogiche serie e approfondite a livello cittadino con competenza, passione, professionalità, con l’obiettivo di garantire la qualità dell’apprendimento e la continuità delle relazioni.
Scuole aperte, ma anche scuole diverse da come erano prima. Il tempo per ragionare e sperimentare c’è stato, così come il tempo per dotare le scuole delle strutture necessarie per affrontare l’eventualità di una seconda ondata di Covid, soprattutto nel Sud Italia dove già prima la precarietà era ai limiti del tollerabile. Ma il mondo politico, le istituzioni, la maggioranza in qualche modo garantita, sono rimasti sostanzialmente a guardare, attuando pochissime misure di sostegno, del tutto insufficienti per la voragine che si è creata ed è aumentata nel frattempo. Quando il peggio sembrava passato, la città ha ripreso malamente a funzionare, senza alcun processo di ricostruzione.
Poi, sulla soglia del secondo lockdown, il panico e la replica scomposta e confusionaria dei governatori e dei governanti, un copione di quanto già visto a marzo quando almeno c’era l’attenuante di essere stati colti alla sprovvista. A sorpresa però, stavolta, c’è stata la reazione di ampie fasce della popolazione, capitanate dalle prime proteste a opera di educatori, insegnanti, genitori e mondo della scuola contro una nuova assurda precoce chiusura, a fronte di un'apertura mai realizzata. C’è stata poi anche la reazione di una fascia non facilmente classificabile e non organizzata da movimenti subito identificabili che, tolti ristoratori, piccoli imprenditori, commercianti vari, rappresenta quella popolazione esclusa da tutte le misure, senza contratto, senza garanzie, senza prospettive, un'entità fuori dai radar che pure però esiste e che senza dubbio “sostiene lo sforzo produttivo del Paese”, per citare un illuminato governatore del Nord.
Dopo che per esigenze spettacolari e comunicative la prima protesta nazionale di questo tenore è stata bollata come un’operazione della camorra – che altro aspettarsi a Napoli? – su alcuni quotidiani nazionali firme più o meno illustri iniziano a usare l’espressione “morire di fame o di Coronavirus”, non tanto perché hanno parlato con la signora R. del campo rom, ma perché finalmente la questione ha assunto una dimensione pubblica concreta, che non si può più semplicemente ignorare anche se si può decidere, ancora una volta, di non affrontare.
A Scampia, nel frattempo, il tenace gruppo all’avanguardia che si muove con ostinazione da quarant’anni seminando alberi, arte, uguaglianza e giustizia sociale nelle situazioni più disperate e conflittuali, si è messo all’opera per ridefinire i contorni dei murales di Felice Pignataro, sbiaditi dal sole e dal tempo. Per non dimenticarci mai che sogni e bisogni sono sullo stesso piano e che ora più che mai si devono far sentire le voci di chi in genere non parla, con la forza delle pennellate colorate sulle mura grigie per ridisegnare il mondo che vorremmo. Che certamente non è questo.
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