Uno dei maggiori storici della Chiesa e un grande innamorato dell’Italia, il gesuita americano John W. O’Malley è morto a Baltimora l’11 settembre all’età di 95 anni. Da giovane gesuita era stato destinato a studiare storia religiosa tedesca, ma poi, come racconta nelle sue memorie pubblicate lo scorso anno, un breve viaggio in Italia e un gelato a Firenze nel luglio 1961 lo fecero innamorare del bel Paese a Sud delle Alpi. La figura e il percorso di studi di O’Malley come storico aiutano a capire la crisi culturale e religiosa americana di cui il cattolicesimo è parte rilevante.

Il pontificato di papa Francesco, il primo papa gesuita, ha coinciso con un risveglio e un ritorno di attenzione sulle traiettorie aperte dal Vaticano II (1962-1965). Ma c’è un altro gesuita che ha reso possibile la riscoperta del Vaticano II nel XXI secolo, ancor prima del conclave del 2013, ed è O’Malley. Il suo libro What Happened at Vatican II, pubblicato nel 2008 e tradotto in diverse lingue (anche in italiano), riaprì negli Stati Uniti e nel mondo anglofono il dibattito sul concilio nel mondo della teologia accademica e in un pubblico molto ampio. Quel libro accolse e sviluppò gli spunti del lavoro storiografico svolto sulla storia del concilio specialmente tra gli anni Ottanta e la fine degli anni Novanta, progettata a Bologna e confluita nei cinque volumi della Storia del concilio Vaticano II, diretti da Giuseppe Alberigo e curati in italiano da Alberto Melloni per il Mulino.

Quella di O’Malley non fu solo una rielaborazione, in un volume per il grande pubblico, di conoscenze precedentemente accumulate, ma anche il tentativo di un aggiornamento della tradizione storiografica e teologica sul Vaticano II che in America si era sostanzialmente smarrita. In quel libro del 2008 (pubblicato a ottant’anni, e con una casa editrice laica come Harvard University Press), O’Malley individuò «le questioni sotto le questioni», centrali per il cattolicesimo al concilio: la possibilità di cambiamento nella Chiesa cattolica, il rapporto tra centro e periferia, e il Vaticano II come evento linguistico e di «stile» cristiano.

Quella di O’Malley non fu solo una rielaborazione di conoscenze precedentemente accumulate, ma anche il tentativo di un aggiornamento della tradizione storiografica e teologica sul Vaticano II che in America si era sostanzialmente smarrita

O’Malley ha rianimato l’interesse per il concilio da una prospettiva storica e culturale in una situazione ecclesiale e globale profondamente mutata e ha contribuito, con la sua enfasi sull'importanza dei registri linguistici usati dal cattolicesimo, all’apertura del cattolicesimo a una nuova fase di inculturazione, in questo momento di ascesa di tradizioni non europee e non occidentali (intellettuali, teologiche, rituali ed estetiche) sulla scena della Chiesa globale – la svolta teologica post-coloniale e/o de-coloniale.

Ma l’operazione di ri-storicizzazione della tradizione con What Happened at Vatican II, che lo storico gesuita completò con due altri volumi sul concilio di Trento e sul Vaticano I, usciti sempre per Harvard University Press nel 2013 e nel 2018 (e poi tradotti in varie lingue), aveva un sottotesto teologico e anche politico di prima importanza. O’Malley comprese l’importanza dell’enfasi sul Vaticano II come «evento linguistico» in un momento storico in cui il concilio non poteva più contare, specialmente nell’establishment ecclesiastico, sulla copertura di legittimità (ambivalente, ma sostanziale) datagli dal pontificato di Giovanni Paolo II. L’interpretazione e l’applicazione del Vaticano II da parte di Giovanni Paolo II sono state sottoposte a una critica talvolta serrata, ma anche i critici di Wojtyla hanno riconosciuto il suo ruolo nella difesa della legittimità del concilio, soprattutto in difesa dal tradizionalismo anti-Vaticano II. La situazione era cambiata in modo significativo dopo il conclave dell’aprile 2005. Il pontificato di Benedetto XVI, l’ultimo partecipante al Vaticano II (non come padre conciliare ma come perito teologico – e uno dei più importanti), aveva coinciso con una sorta di revisione politica della ricezione e dell’applicazione del Vaticano II. Ciò includeva evidenti concessioni e manifestava simpatie per coloro che vedevano nel Vaticano II l’inizio e la causa della crisi nella Chiesa cattolica. Quel libro del 2008 arrivava nel momento in cui il pontificato di Benedetto XVI, eletto tre anni prima, aveva già dato chiare indicazioni e preso decisioni nel senso di una revisione della interpretazione istituzionale del Vaticano II: tra le altre, il famoso discorso sull’ermeneutica del 22 dicembre 2005, la lezione accademica all’Università di Regensburg del settembre 2006, la liberalizzazione della messa pre-conciliare in latino del 2007.

O’Malley ha contribuito, in un modo unico nel mondo anglofono, a salvare il Vaticano II dall’oblio e dagli attacchi più scomposti, ma anche da sottili forme di abrogazione e delegittimazione. Un’abrogazione che in America in parte è già avvenuta nel senso di minimizzare le implicazioni di ampio respiro delle decisioni del Vaticano II: la riforma liturgica, ma anche la libertà religiosa, il dialogo interreligioso, il rapporto tra religione e politica. La delegittimazione del Vaticano II era invece avvenuta sul versante sia ecclesiastico sia politico che aveva approfittato dell’ampio (e talvolta ingenuo) consenso nel mondo accademico e della teologia liberal sul fatto che la ricezione del concilio fosse un fatto compiuto e non, come era ed è invece, una contesa quotidiana sul futuro del cattolicesimo e quindi, indirettamente, anche dell’America.

O’Malley ha contribuito, in un modo unico nel mondo anglofono, a salvare il Vaticano II dall’oblio e dagli attacchi più scomposti, ma anche da sottili forme di abrogazione e delegittimazione

Questo recupero della storia e della teologia del concilio aveva anche un impatto contro-culturale nell’America del secolo XXI, in quel revival nazional-religioso della fase post-11 settembre 2001 prima e del trumpismo cattolico poi. O’Malley aveva compreso le conseguenze del revisionismo sul concilio a livello del magistero papale. Ma aveva intuito anche la pericolosità dei colpi inferti al cattolicesimo conciliare, a una certa idea di Chiesa e di cristianesimo, dall’establishment del potere politico, finanziario, dalle corti di giustizia in America, dal nuovo sistema massmediatico e dell’informazione anche religiosa.

Un innamorato dell’Italia e della cultura italiana della prima età moderna, il gesuita O’Malley vedeva nel Vaticano II un confluire, in una nuova sintesi teologica, del Vangelo e di una idea di persona umana e di cultura che veniva dal Rinascimento, ma aperta sul mondo globale. Si definiva un erasmiano. Nella sua stanza a Georgetown University dei gesuiti, a Washington, teneva un’icona non di Ignazio di Loyola, ma di Erasmo da Rotterdam.