Inizio a scrivere queste note sul Vicino Oriente la sera dell’1 giugno. Mentre registro con inquietudine l’estrema liquidità della situazione, mi rendo conto che sto rischiando di mettere qui per iscritto riflessioni che ben presto potrebbero rivelarsi aleatorie.

Mi pongo innanzitutto un paio di domande scomode. Dopo le gravissime violenze che nel maggio scorso hanno insanguinato e devastato i territori di Israele/Palestina, è ipotizzabile che la piccola regione compresa tra il Giordano e il Mediterraneo riesca a riemergere dal caos nel quale sembra ormai irrimediabilmente sprofondata? E ancora, più specificamente, è ipotizzabile che le popolazioni arabo-palestinesi che vivono da decenni in condizioni di umiliante sottomissione traggano, proprio dalle recenti vicende, le energie per puntare con successo all’emancipazione?

Per rispondere a tali quesiti, getto lo sguardo nella nebbia che avvolge quell’intricato complicatissimo scenario socio-etno-politico, mettendomi di volta in volta occhiali palestinesi, occhiali israeliani, occhiali degli ebrei della diaspora, in particolare della diaspora nordamericana, occhiali di chi negli Stati Uniti tiene attualmente in mano le leve del potere.

A Washington, da quando gli elettori hanno costretto Donald Trump ad abbandonare il proscenio, il clima politico sta cambiando. A fine maggio il potentissimo Senatore repubblicano-trumpiano James Risch, che presiede la Commissione senatoriale per le relazioni estere, tiene bloccati 75 milioni di dollari che l’amministrazione Biden ha destinato ad aiuti umanitari per la popolazione di Gaza. Ma un gruppo di 145 membri democratici della Camera dei rappresentanti, capitanato da Jamie Raskin e composto dai portabandiera dei più vari orientamenti ideologici del Partito democratico, gli indirizza una lettera per sollecitarlo a rendere disponibile con urgenza quel finanziamento. Si tratta di un sussidio, scrivono i Rappresentanti, «disperatamente necessario per sopperire ai bisogni di centinaia di migliaia di civili palestinesi che devono ricostruire le loro esistenze all’indomani dei combattimenti svoltisi all’inizio di questo mese fra Hamas e Israele». Tra i firmatari figurano parlamentari di cui sono note le scarse simpatie verso Israele, come Alexandria Ocasio-Cortez, Rashida Tlaib e Ilhan Omar, accanto a politici tradizionalmente filoisraeliani come Ted Deutch, Kathy Manning e Debbie Wasserman Schultz. Il presidente Hadar Susskind dell’associazione Americani per pace adesso dichiara: «Siamo lieti di appoggiare l’iniziativa assunta dal Rappresentante Raskin ed esprimiamo tutta la nostra stima ai 145 politici che hanno sottoscritto il suo appello. Esigiamo con loro che il senatore Risch sblocchi quel finanziamento senza indugi».

Il mantenere buoni rapporti con la presidenza degli Stati Uniti (con «qualsivoglia» presidente) costituisce per Israele («qualsivoglia» uomo politico sia alla testa del governo) la migliore «assicurazione» per tutelarsi nei rapporti con il Consiglio di sicurezza dell’Onu, con la Corte criminale internazionale dell’Aia, e anche nei negoziati in corso con l’Iran, che Israele può sperare di condizionare soltanto a patto di conservare con chi governa a Washington una relazione positiva.

Il mantenere buoni rapporti con la presidenza degli Stati Uniti costituisce per Israele la migliore "assicurazione" per tutelarsi nei rapporti con il Consiglio di sicurezza dell’Onu, con la Corte criminale internazionale dell’Aia e nei negoziati in corso con l’IranQual è stato il ruolo del governo Usa nella recente guerra Israele-Hamas? Durante i primissimi giorni del conflitto il presidente Biden ha offerto a Netanyahu un sostegno significativo, vuoi in sede di Consiglio di sicurezza opponendo per ben due volte il veto a risoluzioni di condanna di Israele per violazione dei diritti umani, vuoi dichiarando a più riprese che Israele «ha il diritto di difendersi qualora subisca attacchi terroristici». Con l’assumere tali posizioni Biden si è esposto a pesanti critiche dall’interno del suo stesso partito. Fra i democratici infatti, va acquisendo un peso sempre più rilevante un settore che, in tema di rapporti Israele-Stati Uniti, non è più disposto ad aderire supinamente al tradizionale consenso bipartitico pro-Israele. La pretesa, da parte di una società immobiliare di ebrei ultraortodossi, di allontanare con la forza i residenti palestinesi da alloggi del sobborgo di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est, che alcune famiglie ebraiche erano state costrette a lasciare nel 1948, suscita l’indignazione di senatori dello spessore di Bernie Sanders, Elizabeth Warren, Chris Van Hollen e Chris Murphy. Nella seconda metà di maggio, diversi parlamentari autorevoli si rivolgono a Biden per invitarlo a congelare la fornitura a Israele di nuove armi, criticandolo tutte le volte in cui non assume, in conversazioni telefoniche con Netanyahu, un atteggiamento di maggiore fermezza.

Netanyahu, per parte sua, lungi dall’esprimere a Biden gratitudine per il sostegno offerto all’inizio del conflitto e dall’aderire ai suoi pressanti inviti alla moderazione, fa ricorso con ostentazione per vari giorni alla maniera brutale contro Hamas e contro la stessa popolazione civile di Gaza, sino a porre Biden in palese imbarazzo − com’era accaduto un decennio prima con il suo predecessore Barack Obama − e a spingere i rapporti israelo-americani molto vicino a un punto di rottura.

Ma a partire dal 2 giugno lo scenario politico regionale presenta all’improvviso connotati nuovi. In Israele, grazie all’iniziativa di Yair Lapid (il pragmatico leader del partito di centro Yesh Atid) e di Naftali Bennett (leader di Yamina, il partito dell’estrema destra nazional-religiosa dei coloni), sette partiti con orientamenti molto difformi − nazionalisti, centristi e progressisti − affiancati da un minipartito arabo-israeliano di ispirazione islamista (la Lista araba unita, Ra’am, guidata da Mansour Abbas) − un’assoluta «prima volta» nella storia travagliata del Vicino Oriente − hanno dato vita a una coalizione di unità nazionale con il precipuo scopo di detronizzare Benjamin Netanyahu, lo storico «re» di Israele. Il voto con cui la Knesset dovrebbe concedere la fiducia al nuovo esecutivo è previsto per il 13 giugno. Prima di quel giorno, però, tutto potrebbe ancora succedere: le trappole che Netanyahu, e con lui il Likud e i vari partiti religiosi ultra-ortodossi, potrebbero tendere alla fragile maggioranza che sta per disarcionarli e spingerli finalmente all’opposizione, sono davvero infinite come le vie del Signore. Se supererà indenne la prova del voto di fiducia, questo bizzarro «governo a otto» dovrà comunque tenere testa alla quotidiana ostilità del Likud, ricompattare un sistema politico che quattro successivi turni elettorali andati a vuoto hanno profondamente dilaniato e voltare pagina per cercare di restituire alle istituzioni democratiche del Paese una dignitosa credibilità.

I quesiti scomodi in attesa di risposta saranno in tale circostanza davvero numerosi. Quanto a lungo una coalizione così eterogenea riuscirà a conservare la compattezza necessaria per reggere le redini del governo in un Paese in cui il «monarca» Netanyahu ha favorito con spregiudicatezza per dodici anni ogni sorta di conflittualità: tra ebrei e palestinesi, tra ebrei e musulmani, tra destra e sinistra, tra religiosi e laici, tra «patrioti» e «traditori»? Poiché Lapid e Bennett prevedono una premiership a rotazione biennale – riservando a Bennett la presidenza del Consiglio nel primo biennio, mentre a Lapid viene affidato il ministero degli Esteri −, quale reazione è lecito attendersi da parte della minoranza arabo-israeliana della Lista islamista Ra’am di fronte alle intenzioni che Bennett ha espresso in termini tanto netti: «quello con Lapid non sarà un governo di sinistra, non faremo ritiri e non consegneremo territori?» E a dispetto dei dinieghi del «falco» Bennett, riusciranno gli otto partiti coalizzati a spingersi tanto avanti sino a proporre qualche sostanziale miglioramento nei rapporti con i palestinesi? Quale settore della complessa galassia palestinese trova la sua espressione nella Lista Ra’am, che con i suoi quattro voti assicura al governo una maggioranza risicatissima alla Knesset? Dopo i notevoli guasti operati da Donald Trump, questo inedito «governo del cambiamento» si renderà conto di quanto è urgente l’impegno di normalizzare i rapporti con la Casa Bianca, nonché con la comunità ebraica nordamericana?

Per rendere meno «febbricitante» e più pacato il rapporto con Washington, Bennett – un uomo di governo che si presenta sulla scena per la prima volta, e che negli Stati Uniti nessuno conosce − e il suo ministro degli Esteri dovranno evitare di ostacolare − come era solito fare Netanyahu in maniera ossessiva − la ripresa delle trattative sul contenimento del nucleare iraniano: trattative che Barack Obama aveva a suo tempo portato a termine con successo e che Donald Trump si era affrettato a cancellare. Si preoccuperanno di sicuro, questi nuovi governanti, di ammorbidire i rapporti con il Partito democratico Usa, presso il quale negli ultimi anni è andato montando, e non soltanto tra gli esponenti dell’ala progressista, un sordo malumore per la politica aggressiva ed espansiva di Israele. Dovranno infine, Bennett e Lapid, cercare di ricostruire legami più solidi e positivi con la comunità ebraica d’oltre Atlantico, le cui preferenze elettorali vanno appunto al Partito democratico: un compito reso ora più agevole grazie al fatto che dalla coalizione governativa sono finalmente esclusi i haredim, gli ultra-ortodossi. In virtù di tale esclusione Bennett, che pure è a capo di un partito di coloni religiosi, si sentirà libero di affrontare con minore intransigenza alcuni temi che investono la vita personale degli ebrei osservanti (il matrimonio, il divorzio, la conversione all’ebraismo): temi sui quali gli ultra-ortodossi israeliani hanno storicamente esercitato una pesante influenza, con esiti legislativi considerati ostici dalla diaspora d’oltre Atlantico in quanto hanno riproposto come cogente erga omnes la legislazione d’ispirazione ortodossa messa in vigore nello Stato ebraico dai haredim. A tal riguardo, qualora si rivelasse più malleabile dei governi che l’hanno preceduto, il governo Bennett-Lapid si farebbe apprezzare in particolare dai Conservative e Reform, che nella grande comunità degli ebrei Usa sono largamente maggioritari.

In Israele alcune forze politiche di destra stanno accettando di dare vita a un governo di unità nazionale assieme a un partito arabo-israeliano di ispirazione islamistaSe è vero, in ogni caso, che il nuovo esecutivo dovrà in primo luogo misurarsi con il tema dei rapporti con la striscia di Gaza e del conflitto in corso da qualche tempo tra ebrei e arabi nelle città israeliane con popolazione mista, non sfugge a nessuno che, proprio in questi giorni, in Israele alcune forze politiche chiaramente di destra stanno accettando, senza particolari pudori, di dare vita a un governo di unità nazionale assieme a un partito arabo-israeliano di ispirazione islamista. Non costituisce ciò, di per sé, una premessa per possibili insperate relazioni più civili e umane tra ebrei e arabi in Israele e, chissà, persino tra israeliani e palestinesi nella Cisgiordania e a Gaza? In una prospettiva di tal genere, il cammino che gli uni e gli altri dovranno compiere è comunque ancora lunghissimo. Ed è un cammino che dovrà fare i conti non soltanto con le faglie che lacerano in profondità il mondo israeliano, ma anche con le varie contrastanti anime che da decenni creano tensioni e rivalità feroci all’interno della stessa galassia palestinese.

Nel corso degli scontri interetnici che nello scorso maggio hanno avuto come epicentro Gerusalemme Est, in particolare a Sheikh Jarrah e alla moschea Al-Aqsa, la partecipazione dei palestinesi di Gerusalemme (che sono circa il 40% della popolazione totale della città) è stata largamente meno rilevante di quella di dimostranti arabo-israeliani residenti in località diverse, del Nord e del Centro d’Israele. Degna di nota è stata la massiccia presenza di attivisti arabo-israeliani giovani, appartenenti a una generazione nuova: una gioventù che non aveva partecipato all’ultima intifada, nel settembre del 2000, una gioventù non necessariamente riconducibile a questo o a quel partito, persone che soltanto ora iniziano a prendere parte con vigore alla vita politica. Negli ultimi giorni del Ramadan, giunti a Gerusalemme a bordo di dozzine di autobus, questi attivisti di varia provenienza hanno affrontato la polizia di Israele a viso aperto, avviando un primo significativo cambiamento nelle relazioni tradizionalmente non facili fra i palestinesi di Gerusalemme – che il governo di Israele considera «residenti permanenti» ma non «cittadini» − e gli arabi con cittadinanza israeliana che vivono in altre località. Verso questi ultimi, infatti, in passato i gerosolimitani solevano esprimere un sordo risentimento accusandoli di godere, proprio grazie alla cittadinanza israeliana, di un relativo benessere, e di avere perciò dimenticato le sofferenze che i fratelli di Gerusalemme erano costretti a patire a causa della perdurante occupazione degli israeliani. «Noi, giovani arabi cittadini d’Israele», ha dichiarato una ragazza di 22 anni di Baka al-Garbiyeh, nel Nord di Israele, «prendiamo viva parte alle proteste perché [noi palestinesi] siamo un solo popolo, una sola nazione, dalla Galilea al Negev». Già un paio di mesi prima delle recenti cruente vicende, tre gruppi di giovani politicizzati della città arabo-israeliana di Um al-Fahm, non lontana da Haifa, avevano dato vita al United Fahmawi Movement per organizzare dimostrazioni contro la polizia, sia a Um al-Fahm sia a Gerusalemme.  Perfettamente attrezzati nel diffondere attraverso i social network informazioni circa il loro movimento, hanno lanciato su Twitter l’evocativo hashtag Plm, Palestinian Lives Matter quando hanno appreso che nella spianata delle Moschee stava scorrendo abbondante sangue palestinese.

Le vicende dello scorso maggio sono sfociate, com’è noto, in diffusi episodi di violenza locale tra arabi ed ebrei in varie città israeliane a popolazione mista, con incendi e devastazioni di sinagoghe e di moschee che hanno fatto temere lo scoppio di una vera e propria guerra civile. Ma infine l’attenzione dei media è andata ovviamente concentrandosi sullo scambio smisurato di missili e bombardamenti tra Hamas e Netanyahu, e sulle centinaia di morti innocenti che quel breve conflitto ha provocato. Hamas e Netanyahu: sono stati questi due gli interlocutori indiscussi di un’escalation scriteriata, convinti entrambi di disporre di un’ottima opportunità per capitalizzare consenso politico. Da questa partita, come s’è visto il 13 giugno, Netanyahu è uscito decisamente sconfitto. Ma sul versante opposto, è proprio sicuro che il movimento islamista che, finanziato dal Qatar e in parte dall’Iran, fa di Gaza la propria roccaforte, sia riuscito a intestarsi la leadership della resistenza palestinese e a scrollarsi di dosso le accuse di inconcludenza politica e governativa del suo regime inequivocabilmente autoritario?

Da poco meno di un secolo israeliani e palestinesi vivono all’ombra della grande storia, gli uni accanto-insieme-contro gli altriDa poco meno di un secolo israeliani e palestinesi vivono all’ombra della grande storia, gli uni accanto-insieme-contro gli altri. In un recente articolo su «France Inter» Pierre Haski rileva con acutezza che la storia può esercitare un peso schiacciante soprattutto quando, veicolando insopportabili memorie traumatiche, si caratterizza come una storia non condivisa. E riflettendo su israeliani e palestinesi, l’opinionista francese si domanda se sia mai possibile che essi superino il conflitto in cui sono tragicamente coinvolti senza prima riconoscere gli uni i traumi e le cicatrici degli altri.

Affronta questo tema con osservazioni illuminanti Aluf Benn, redattore-capo del quotidiano israeliano «Haaretz», che l’1 maggio 2021 − poco prima, dunque, che Israele e Palestina siano sconvolti dalle recenti violenze – pubblica un articolo intitolato Gli ebrei israeliani dovrebbero smettere di temere la Nakba. Ricorda, questo brillante giornalista, che dopo la guerra del 1948, in Israele è a lungo circolata come un mantra la tesi secondo la quale il problema dei rifugiati palestinesi sarebbe nato da un appello dell’Alto comitato arabo di vigilanza che avrebbe ingiunto agli abitanti dei territori palestinesi l’evacuazione delle case e delle città. Gli storici dell’epoca non trovarono alcun documento che convalidasse quella tesi. Ma quantunque, fin dal 1959, lo studioso palestinese Walid Khalidi avesse rivelato che il racconto dell’ordinanza emessa dall’Alto comitato arabo di vigilanza era una bufala fatta circolare da un propagandista americano sostenitore della destra sionista, echi di quelle fake news riemergono ancor oggi in occasionali dibattiti sulle responsabilità morali dell’esodo dei palestinesi. Nel panorama molto vivace della giovane storiografia israeliana, inattesi indizi circa le vicende che portarono alla nascita di Israele e alla contemporanea diaspora dei palestinesi emersero dal libro (1988) del capofila dei «nuovi storici» Benny Morris, Esilio: Israele e l’esodo palestinese, 1947-1949. A Morris, sottolinea Benn, va riconosciuto in particolare il merito di avere posto al centro di quelle vicende la decisione politica, che gli israeliani presero mentre la guerra era ancora in corso, di rendere sin da allora impossibile il ritorno dei rifugiati e di confiscare il loro territorio a tutto vantaggio delle città e dei villaggi ebraici. Alla radice dell’interminabile conflitto tra Israele e Palestina sta proprio quella decisione, che ancor’oggi è operativa. Sul versante israeliano essa ha dato luogo a un ventaglio di leggi − a quella sulla proprietà assenteista, a quella sull’acquisizione della terra, nonché alle leggi che istituiscono il Fondo nazionale ebraico e l’Autorità per la terra di Israele – mentre sul versante palestinese essa ha prodotto la Nakba, l’espulsione, la spogliazione, la confisca, l’oppressione e l’insopprimibile speranza dei palestinesi di recuperare il diritto al ritorno. Se non ci si tuffa risolutamente nella storia del 1948, rammenta Benn, non si comprende nulla delle relazioni attuali tra ebrei e arabi in Israele, né si comprende nel suo complesso il conflitto israelo-palestinese e i vari velleitari tentativi di risolverlo, e persino la bizzarra inclusione di un partito arabo nella attuale coalizione di governo. «La nascita del problema dei rifugiati», afferma in conclusione Benn, è un tema «scolastico» che in Israele ogni istituto secondario superiore e ogni scuola per allievi ufficiali dovrebbe proporre ai propri studenti. Sta di fatto, però, che la stessa la parola «Nakba» suona ripugnante al cuore del mainstream israeliano, tant’è che di Nakba e di rifugiati palestinesi non si fa cenno né nei corsi liceali di storia né in alcun museo di storia.

Per trovare informazioni utili sull’argomento è consigliabile approcciare l’app Nakba dell’organizzazione non governativa Zochrot, fondata nel 2001 da Eitan Bronstein Aparicio. Nato in Argentina sessant’anni fa ed emigrato in Israele con la famiglia all’età di cinque anni, Bronstein Aparicio è cresciuto nel Kibbutz Bahan nell’Israele centrale. «Da Claudio, come mi chiamavo, il mio nome è diventato Eitan: porto la rivoluzione sionista dentro di me», dichiara con tranquillità. Eitan parla di sé come di un «israeliano normale» che ha fatto il servizio militare, alla pari di chiunque altro. Al termine di un percorso personale che definisce la «decolonizzazione della mia identità sionista», è pervenuto a creare Zochrot (in ebraico «ricordare»): una Ong che, mediante un articolato programma di studi storici alternativi, destinato alle classi terminali delle scuole superiori d’Israele, si propone di suscitare e diffondere fra gli israeliani la consapevolezza della Nakba e del diritto dei palestinesi al ritorno. Molto noti nella cerchia degli attivisti di sinistra, Bronstein Aparicio e la sua compagna Eléonore Merza, di quarant’anni, hanno scritto a quattro mani un libro proprio sulla Nakba. Eléonore è una cultrice di antropologia politica. Nata in Francia da madre ebrea e da padre circasso, anno dopo anno ha trovato la vita in Israele sempre meno accettabile sotto il profilo ideologico, politico e professionale. E pur avendo ottenuto la residenza permanente, nel dicembre 2019 ha deciso assieme a Eitan e ai figlioli di trasferirsi a Bruxelles, dove le è stato offerto un lavoro particolarmente interessante.

Nelle intenzioni di questa coppia, il trasferimento in Europa è da considerarsi definitivo. Da parte mia esprimo l’auspicio che Eitan ed Eléonore ci ripensino: il Vicino Oriente ha un bisogno enorme di persone come loro.

 

[Questo contributo è in uscita su «Qol. Rivista trimestrale di teologia e dialogo interreligioso», n. 202, aprile-maggio-giugno 2021]