C’è questa idea malsana che presto o tardi si insinua in tutti i narratori: l’idea, cioè, di fare il Grande Romanzo della Nazione, quello che insomma attraversa a lunghe falcate la Storia servendosi del racconto di un protagonista, nel suo crescere e nel suo invecchiare, nel suo farsi testimone in corpore vili del succedersi degli accidenti. Gli scrittori più onesti, o i più prudenti, di fronte a questa tentazione si aggrappano al senso della misura, o del pudore, e si astengono, sapendo che a riuscire nell’impresa sono stati solo i grandi – i Flaubert, i Tolstoj, i De Roberto – e che a imboccare la via dei grandi si finisce spesso in un vicolo cieco. Nel mezzo, tra i saggi e i maestri, ci sono poi gli ingenui, o gli sventurati colti da quell’altra forma d’ingenuità che è il velleitarismo, che sciaguratamente l’impresa la tentano, e con esiti quasi sempre terribili.
Con Iniziazioni (Elliot, 2024), Matteo Marchesini compie in questo senso un’operazione un po’ strana, in cui riesce a suo modo nella missione senza forse essersela davvero prefissa: ché infatti uno si accorge di aver letto un resoconto efficacissimo di come molta parte dei 40-50enni italiani siano arrivati all’età della consapevolezza, e per quali vie e quali stravolgimenti abbiano conquistato la loro maturità, solo alla fine del libro. È un po’ un lungo romanzo di formazione di una generazione, o magari di un uomo solo scomposto in vari personaggi ma che davvero ha vissuto il suo tempo, ha fatto a pugni con le sue imposizioni, e alla fine, pur non volendo, se ne è lasciato compromettere proprio nella misura in cui ha provato ad affrancarsene.
Il romanzo è però a puntate, per così dire. Attraverso sette differenti momenti – Racconti di sette età è il sottotitolo – seguiamo l’educazione sentimentale di un uomo che è stato bambino nella provincia emiliana intorno alla metà degli anni Ottanta – lo vediamo saltar fuori dalla 127 della madre, in una periferia tra Bologna e Modena dove i sollazzi per gli infanti sono tutti analogici, finché bastano quelli –, che lì è cresciuto smazzandosi i traumi di un’adolescenza complicata e lì s’è avviato alla vita adulta. Ora, Marchesini è troppo accorto, e troppo fedele alle sue convinzioni, per cercare la scorciatoia patetica di quello che lui stesso, in alcuni dei suoi saggi dedicati alle storture sdoganate della narrativa contemporanea, ha definito lo «storicismo da camera da letto», che impone ad esempio che i due innamorati abbiano l’amplesso nel loro monolocale nel centro di una Bologna mezza deserta, vicino alla stazione, nella mattinata di un due agosto qualsiasi, e poi il boato. Ecco, no. Nulla di tutto questo: nessun intreccio narrativo costretto dentro una puntata di Blu Notte. Lo Zeitgeist dell’Emilia a cavallo tra il Novecento e il secolo nuovo non è qualcosa contro cui i personaggi del libro scenograficamente incocciano, ma è semmai una presenza pulviscolare: la sostanza rarefatta e pervasiva dell’aria che respirano, e noi con loro.
In certi casi il protagonista si sdoppia un po’: lo vediamo cioè incarnare diverse forme di un sé possibile, ciò che sarebbe potuto diventare e ciò che è più o meno davvero stato, e in quel diaframma avviene il conflitto più rivelatore tra il narratore e i suoi prestanome
In certi casi il protagonista si sdoppia un po’: lo vediamo cioè incarnare diverse forme di un sé possibile, ciò che sarebbe potuto diventare e ciò che più o meno davvero è stato, e in quel diaframma avviene il conflitto più rivelatore tra il narratore e i suoi prestanome. Fino a che punto ci sia il vero Marchesini, dietro quei protagonisti, è perfino superfluo stabilirlo: è certo del resto che sia davvero quello l’orizzonte esistenziale che Marchesini ha conosciuto, e non a caso è quello che ricorre in maniera costante in tutta la sua produzione narrativa e poetica: la provincia emiliana «postmoderna e atemporale», la Bologna con le sue residuali pose artistiche sempre più grottesche.
E così, in certi passaggi, il Marco di Eredità, perso nella rievocazione di donne possedute ma mai avute in un appartamento di Bologna che ormai non è più suo, pare coincidere col Marco che in Atti mancati (Voland, 2013) annaspava in un rapporto di «intimità non erotica» con la sua ragazza malata, e quest’ultimo Marco a sua volta era, a ripensarci oggi, già sinistra prefigurazione del Bruno protagonista del racconto che segue Eredità, e che s’intitola Dopo. E il vecchio contadino, Luigi, del racconto finale (Regine) di Iniziazioni potrebbe in fondo benissimo essere «il vecchio/ che avanzava distratto tra le viti/ calcandosi in testa il mio cappello dei Lakers» che compariva in una bella poesia contenuta nella raccolta Scherzi della natura (Valigie Rosse, 2022). Oppure il motivo, pure questo presente in vari momenti della produzione narrativa di Marchesini, del manipolatore che finisce manipolato: è la storia del protagonista di Storytelling qui in Iniziazioni, aspirante letterato fallito, rappresentante di quella «folta schiera degli ex ragazzi del Sud che dopo il Dams a Bologna sono rimasti a vivacchiare tra i portici», che si guadagna da vivere con corsi aziendali di Dialogo e Letteratura e raccattando come può donne da ammaliare, scegliendole tra le «pedine fragili» delle sue platee («I nati nel ’59 tengon corsi di teatro/ quando va bene si rimorchiano le allieve», cantava nel 2011 Niccolò Contessa, che c’ha sempre visto lungo); ma era grosso modo anche la storia della Rapida ascesa di B. Lojacono, il racconto più bello della raccolta False coscienze (Bompiani, 2017) e pure là lo sfondo era quello di una Bologna piena di reduci damsiani. E lo stesso twist – ma era un po’ diverso il contesto – succedeva anche in Atti mancati, con Marco e Lucia che a un certo punto s’invertono i ruoli nella coppia.
Che sia un limite, questo rimestare inesausto le stesse salse? Forse. Ma d’altronde non si chiede a Sciascia di raccontare gli umori degli industriali padani, e leggiamo Pratolini appunto perché vogliamo capire la sua Firenze. Se dunque Marchesini è, com’è forse per davvero, il narratore dell’Emilia dell’ultimo quarto di secolo, che male c’è?
Che sia un limite, questo rimestare inesausto le stesse salse? Forse. Ma d’altronde non si chiede a Sciascia di raccontare gli umori degli industriali padani. Se dunque Marchesini è, com’è forse per davvero, il narratore dell’Emilia dell’ultimo quarto di secolo, che male c’è?
Tanto più che questa ricorsività non è solo di luoghi e di atmosfere, ma anche e soprattutto di temi. E anche qui: in un’epoca in cui tanti scrittori si fabbricano fantasmi da cui si capisce che non sono realmente assillati per stare al passo con le angosce più à la page, il fatto che un autore si rigiri nelle mani sempre la stessa ossessione a me pare un segno di onestà. E da questo punto di vista Iniziazioni è forse il libro meglio riuscito di Marchesini, nel senso che questa raccolta di racconti di sette età è, credo, quella in cui prende di petto con maggiore coraggio il suo turbamento più consistente: che è, ma qui qualsiasi definizione con pretesa di esaustività sarebbe inutile, l’impossibilità di condividere fino in fondo la verità nella vita di coppia, l’idea insomma che solo sprofondando in sé stessi si possa restare autentici, fedeli alla propria coscienza e alle proprie perversioni. Grazia e condanna che non possono in alcun modo essere confessate né vissute in comunione con altri, a meno di non mistificare tutto.
E si capisce allora che tutte le iniziazioni descritte hanno a che fare col sesso: è la scoperta dell’eros, nelle sue molte forme che mutano col passare degli anni e delle esperienze, a segnare il passaggio da un’età all’altra. Ciò che i protagonisti dei vari racconti paiono comprendere, da angolature diverse ogni volta e ogni volta arrendendosi a questa verità in un atto che sa più di liberazione che non di scoramento, è che proprio in ciò che di più intimo esista tra due persone matura invece il distacco, come che la commistione totale di corpi e di umori si risolva nel ripudio dell’insincerità che sta alla base della convivenza, come che il gorgo dell’amplesso ridoni ciascuno dei due all’imprescindibilità della propria condizione di essere singolo. Era in fondo la descrizione di questa vertigine che rendeva così belle, e commoventi, certe poesie di Marcia nuziale (Scheiwiller, 2009), dove dal sesso l’io narrante e la sua donna uscivano quasi sempre inconoscibili l’uno all’altra. Quindici anni dopo, siamo ancora lì. E, consapevole di ciò, il multiforme protagonista di Iniziazioni oscilla tra la percezione immediata della fugacità dell’unione, vivendo pure quella come un preludio al sollievo meschino della solitudine («Davo il meglio di me, cioè forse il peggio, se avevo davanti una via di fuga a breve; come quasi tutti, credo. E adesso, senza confessarmelo a parole, speravo che dopo la partenza di Vera i ricordi sublimati della nostra intimità mi avrebbero confortato nella stagione grigia della tesi», dice il personaggio di Conoscersi, che gioca a illudere anzitutto se stesso che davvero quell’avventura strampalata con una ragazza pronta a partire per l’Erasmus sia qualcosa di più di un intermezzo on the road lungo la Salaria) e la tentazione di far durare tutto oltremodo, con slanci patetici e promesse spropositate («aveva giocato subito la posta del grande amore, promettendo un’accoglienza illimitata, solo per eccitarsi ed eccitarla», si dice di Marco, e siamo al racconto Eredità, che per un po’ assume «il ruolo improbabile dell’innamorato» con Daria, in un raffinato esercizio di finzione). Fino a che, ovviamente, questo solipsismo esasperato non appare come una colpa da espiare: ed è ciò che capita a Bruno, che in Dopo deve imparare a riprendere dimestichezza col sesso a seguito di un’operazione in cui gli è stato asportato un testicolo, e nel ripensare alle sue relazioni di prima si convince che «era stato punito proprio nella sede del desiderio che aveva lasciato marcire, incapace com’era di tenerlo vivo dentro la copia, dopo la seduzione […]».
E non sembra casuale che bambini, ragazzi e uomini tormentati dalla ricerca di una verità da poter condividere con un’altra persona vivano il sesso con un disagio un poco patologico, visto che proprio intorno all’eros si registra la più insondabile distanza tra il pensiero e l’azione, tra i desideri più animaleschi, e dunque più puri, e gli atti che da quei desideri scaturiscono, ma quasi sempre inevitabilmente falsati (gli atti mancati, si potrebbe dire, forzando un po’, ma neppure poi troppo, il senso del titolo del vecchio romanzo di Marchesini). Perché al di là delle pretese e dei ricatti morali di questa polizia etica imperante, che ci vorrebbe mondare delle turpitudini degli istinti, quasi che la pulsione di per sé sia ciò che qualifica la devianza, l’eros continua a crescere in quell’anfratto buio che è dominio della fantasia, e che ha poco a che fare con la vita reale, pur essendo realissimo.
E certo non sempre sbrogliare questa matassa facendone narrativa è la soluzione più giusta («Anche lui, con una nota falsa e patetica, si era giocato la sua storia vera», si rammarica Marco, in Eredità, ripensando a una confessione di troppo concessa a quella che era stata la sua fidanzata). Ma è tuttavia consolante, per certi versi, che lo strumento più giusto, più affilato per scandagliare questo sprofondo di incomunicabilità, per indagare le ambiguità più imprendibili del nostro essere continui a essere la letteratura, la buona letteratura. Che altro dovrebbe fare la letteratura, sennò?
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