“Ma insomma, prof, si può imparare anche fuori dalla scuola! Perché dovete dirmi voi quello che devo imparare?!”. Luca, 17 anni, la testa inghiottita dal cappuccio, emerge dal torpore che lo avvolge da più di un’ora e irrompe, con fare spazientito, nel mezzo della lezione. Impossibile ignorare quelle parole, che hanno come bersaglio tutte le mie convinzioni. Colta alla sprovvista, imbastisco una risposta improvvisata, ma quella provocazione mi costringe a riflettere.È difficile non dare ragione a Luca: è ovvio che si impari anche fuori dalla scuola. Si impara andando a teatro, leggendo un libro, sfogliando un giornale; si impara viaggiando con gli occhi bene aperti; si impara dagli incontri che si fanno. Dunque a che cosa serve la scuola? Quale rimane il suo ruolo specifico in un mondo in cui la conoscenza sembra essere sempre più accessibile altrove?
Sono tante le risposte possibili, prima fra tutte – per nulla scontata – trasmettere alcune abilità di base: leggere e interpretare un testo, produrre un elaborato scritto onesto e comprensibile, impadronirsi dei principali elementi del linguaggio logico-matematico. Temo, però, che queste argomentazioni tecniche non siano sufficienti a convincere Luca e i suoi compagni, meno sfacciati ma sostanzialmente concordi. Forse l’unica via è provare a raccontare una storia, una storia che li riguarda perché comincia da loro, dalla 4B di un istituto professionale per l’industria e l’artigianato. Ventiquattro ragazzi, tra i 17 e i 22 anni. Molti ripetenti. Quasi tutti arrabbiati, spigolosi, ostili. Sembra impossibile stabilire una relazione, scalfire quella scorza di disinteresse e diffidenza. Le ore di italiano non procedono: tutto è troppo noioso o troppo difficile. Sono stanchi perché è la prima ora; sono stanchi perché è l’ultima ora; sono stanchi perché proprio non è giornata. Intrappolati da regole di cui non riconoscono il senso (chiedere il permesso per uscire, non usare il cellulare, procurarsi quaderno, penna e libro), scalpitano nervosamente, affondano lo sguardo in un altrove qualsiasi fino a crollare, sconfitti, con la fronte sul banco.
Poi, in un pigro giorno di aprile, arriva Leopardi: il più canonico degli autori, imposto a generazioni di studenti di ogni ordine e grado, rassicurante presenza in qualunque antologia, emblema di tutto ciò che Luca contesta. Arrivano la siepe, l’ermo colle, l’infinito solo immaginato e cala il silenzio. Gli occhi si accendono. È come se i miei ragazzi trovassero in quelle parole così inattuali la traduzione del loro malessere indefinito, l’eco dei sogni che non sanno nemmeno di avere. Non capiscono tutto, inciampano nei versi, fraintendono qualche parola: ma si interrogano, fanno domande, vogliono capire. Allora la lezione comincia a scivolare, e si parla – in un professionale per l’industria e per l’artigianato! – di vita interiore, di immaginazione, di intensità di sensazioni; di come, a volte, ciò che immaginiamo possa diventare ancora più reale della vita vissuta. In momenti come questo, che sembrano non avere nulla a che fare con gli obiettivi prioritari di un istituto professionale, io riesco a intravedere con chiarezza il valore della scuola, la sua necessità.
Da soli, i miei alunni difficilmente si sarebbero avvicinati a Leopardi, un autore così complesso e così lontano dal loro orizzonte di attesa. Eppure molti di loro sono stati contenti di scoprirlo. Sono stati colpiti dai suoi versi, tanto inafferrabili quanto precisi, o più semplicemente “belli”, come li ha definiti Amor, seduto al primo banco. Certamente, studiare è un’altra cosa: tornare sugli appunti, stabilire relazioni e collegamenti, memorizzare. Il più delle volte abbandonano ancor prima di provarci. Ma il lavoro in classe ha avuto una sua intensità e ha sortito l’effetto, non scontato, di allargare gli orizzonti dei miei studenti, offrendo loro un’esperienza diversa. Senza quelle lezioni, guardando I Cento passi, l’ultimo giorno di scuola, avrebbero perso l’occasione di riconoscere immediatamente – e non senza una certa soddisfazione – il testo de l’Infinito recitato da Peppino Impastato bambino, durante il pranzo di famiglia che apre il film. Persino Marco, che con la poesia non va molto d’accordo, completava i versi prima che il piccolo attore finisse di pronunciarli, come si fa con le canzoni che si conoscono un po’. Sono convinta che i miei alunni avrebbero potuto vedere I Cento passi anche fuori dal contesto scolastico, per caso in televisione o dietro consiglio di qualche amico più grande. Ma sono altrettanto convinta che, senza aver “attraversato” Leopardi sui banchi di scuola, avrebbero avuto qualche strumento in meno per comprendere quella scena. E, per una volta, sono stata contenta di essere complice di un sistema che ha detto ai miei studenti che cosa imparare. Non succede sempre.
Ogni anno scolastico è lastricato di infiniti tentativi, tanti fallimenti e qualche isolata soddisfazione che, senza clamore, contribuisce a costruire delle vite. Questo accade quando si ha il coraggio di non assecondare troppo la demotivazione degli studenti e si decide di non lasciarsi contagiare dalla loro disillusione. Si può discutere sui metodi, certamente da rinnovare, ma la scuola ha ancora una grande proposta da offrire: condurre i ragazzi in territori inesplorati, regalare il gusto della sorpresa, fornire loro una cassetta degli attrezzi per decifrare il mondo fuori dalla scuola, dove, certamente, potranno e dovranno continuare a imparare.
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