Il lungo inverno politico, amministrativo e sociale della Calabria sembra ormai aver addomesticato anche gli ultimi aneliti di quel ribellismo che, in un modo o nell’altro, ha attraversato la storia di quella terra. Da quasi sette mesi – e per almeno altri cinque ancora - la Calabria, orfana del suo presidente di Regione, è guidata da un vicepresidente facente funzioni, non eletto, che si è distinto soltanto per improvvide dichiarazioni sui «froci» e per una lunga crociata contro l’apertura delle scuole; la sanità, pur in tempo di pandemia, è commissariata in tutti i suoi livelli e ha subito clamorosi avvicendamenti al vertice, a seguito di inefficienze conclamate e sbandierate in diretta televisiva; la Regione, infine, continua lentamente a spopolarsi e anche in questo anno così speciale ha perso – come accade da anni – qualche migliaio di abitanti, per lo più giovani e laureati.
In questo contesto, per l’appunto, sembra prevalere la rassegnazione e la tacita accettazione di quella rappresentazione scenica che rende la Calabria al tempo stesso un enorme stereotipo e un set cinematografico utile per raccontare l’infinita storia dei buoni e dei cattivi.
Prevale di norma la rassegnazione e la tacita accettazione di quella rappresentazione scenica che rende la Calabria un set cinematografico utile per raccontare l’infinita storia dei buoni e dei cattivi
L’immagine della Calabria intesa come luogo sospeso tra barbarie e modernità, tutta sole, mare, maschilismo, ’ndrangheta, non finito, familismo amorale e tarantella, terra bellissima e irredimibile, si solidifica anche grazie al concorso dei calabresi stessi, se è vero, come è vero, che la giunta regionale ha commissionato e pagato a Gabriele Muccino un cortometraggio che eleva a opera d’arte quella rappresentazione. Ma soprattutto i media locali concorrono spontaneamente, e non senza alcune macroscopiche contraddizioni, alla spettacolarizzazione del processo e alla sua configurazione come il nuovo grande maxi-processo del Paese, il sequel calabrese di quella stagione palermitana invero irrepetibile nel bene e nel male.
Nella retorica che ha preceduto la celebrazione delle prime udienze, che vanno svolgendosi nella nuova aula bunker appositamente costruita a Lamezia Terme nell’ex area votata a uno sviluppo industriale mai arrivato, è palese l’intenzione di rappresentare la Calabria, e in particolare la provincia di Vibo Valentia, come il teatro di una vera e propria guerra civile dove le forze del male, i clan mafiosi supportati da magistrati, politici e giornalisti corrotti e da una borghesia delle professioni connivente e pavida, devono essere sconfitte con ogni mezzo necessario dal popolo e dai suoi condottieri senza macchia e senza paura.
Come accade per ogni stereotipo e per ogni guerra, l’irrigidirsi delle posizioni annulla progressivamente i distinguo, le tesi articolate e garantiste, le esperienze divergenti e minoritarie, gli sforzi di costruire percorsi di sviluppo che non siano agevolmente catalogabili nel racconto ufficiale. Ma proprio in questo lungo inverno della ragione accade che Vibo Valentia ‑ capoluogo di una provincia tra le più piccole ed arretrate del Paese, tristemente in coda in ogni classifica che riguardi la qualità della vita ‑ venga proclamata dal ministro Franceschini «capitale del libro 2021» e che questa notizia faccia irrompere nel dibattito pubblico un’altra visione della Calabria (della Calabria che c’è e di quella che ci potrebbe essere).
Il riconoscimento ottenuto da Vibo può forse apparire sorprendente ma non deve in alcun modo essere considerato casuale. Certo, la Calabria resta una delle Regioni italiane con il minor numero di lettori e di libri venduti, ma è pur vero che da qualche anno i dati sono in leggerissima crescita, che si rafforza la quota di mercato degli editori locali (in primis Rubbettino) e che alcuni autori (da Gioacchino Criaco a Carmine Abate, da Mimmo Gangemi e Domenico Dara) si sono imposti all’attenzione del pubblico italiano. Certo, Vibo è la provincia dove magari si conteranno più massoni che lettori, ma il lavoro portato avanti caparbiamente dal Sistema bibliotecario vibonese ha prodotto risultati eccezionali, non ultimo il festival Leggere e scrivere che coinvolge attivamente scuole, ragazzi e larga parte della cittadinanza.
Se la candidatura a capitale del libro nasce dal basso e sulle fondamenta solide di iniziative consolidate nel tempo, quello che appare ancora più interessante è che il progetto risultato vincitore si propone di guardare al basso, indicando tra gli obiettivi da raggiungere quelli di costruire una cultura diffusa del libro, di contrastare la povertà educativa, di promuovere la lettura fuori dai luoghi abituali e di implementare la rete di piccole biblioteche sparse sul territorio.
Se la candidatura a capitale del libro nasce dal basso, quello che appare ancora più interessante è che il progetto risultato vincitore si propone di guardare al bassoLibri, scrittori, festival, dibattiti culturali, biblioteche che crescono, biblioteche che nascono, stabilimenti balneari che attivano il prestito librario, premi letterari che si propongono esplicitamente di sostenere una narrazione che superi i luoghi comuni sulla regione sembrano dimostrare non tanto, come pure in molti si sono affrettati a scrivere, che anche la Calabria può essere centro di qualcosa, ma piuttosto che anche in questa Calabria si può immaginare e realizzare una strategia di sviluppo che non accarezzi lo stereotipo e che sfugga all’idea che tutto sia necessariamente, e per sempre, ‘ndrangheta o anti-‘ndrangheta.
Sempre meno convincente risuona la convinzione, pure tanto spesso ripetuta, che tutti coloro che possono fuggono volentieri dalla Calabria in cerca di un altro futuro. Oggi più probabilmente dovremmo correggere questa frase e ammettere che chi può, invece, resta in Calabria.
Restano quelli che hanno una rendita di posizione da amministrare, i privilegiati che grazie all’auto-espulsione di migliaia di calabresi possono conservare i vantaggi che altrove vanno riducendosi e restano quelli che si possono permettere di sognare ancora, di opporsi a un declino lento ma inesorabile. Resta chi ha vinto e chi può permettersi il lusso di perdere. Con i fondi legati al progetto capitale del libro, il Comune di Vibo donerà ai nuovi nati un piccolo kit di libri per la prima infanzia insegnando alle loro madri e ai loro padri il valore della lettura e coinvolgendo in questa attività anche i pediatri. Cresceranno nuovi lettori, e magari anche i protagonisti di una nuova storia, lontana e diversa da questo lungo inverno.
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