Se ne cominciò a parlare nel gennaio 2002 al Foro Sociale Mondiale di Porto Alegre durante un incontro delle campagne contro l’embargo all’Iraq. L’eventualità che su un Paese, già prostrato da 13 anni di embargo, si potesse abbattere un nuovo attacco militare mobilitava chi nel corso degli anni Novanta aveva contato a decine di migliaia le vittime per fame delle sanzioni certificate dall’Unicef e aveva ascoltato Madeleine Albright affermare: “ne vale la pena”. In Afghanistan i profughi della guerra al terrorismo erano già diversi milioni. Da anni i neocon del Project for a New American Century chiedevano di “finire il lavoro” iniziato da G.W. Bush con la Prima guerra del Golfo. Bush figlio, già dai primi giorni dopo l’attacco alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001, aveva puntato l’indice contro l’Iraq e a fine gennaio aveva coniato la teoria del cosiddetto “Asse del male”. L’illusione che la fine del bipolarismo avrebbe aperto le porte a un periodo di pace non aveva più molti adepti, ma questa volta si parlava esplicitamente di Regime Change come obiettivo di una guerra. Si minavano alla base i fondamenti del diritto internazionale. Si apriva definitivamente la porta al ritorno della guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali.
In realtà non erano molti allora a credere che quella guerra ci sarebbe stata davvero. Poi, soprattutto grazie all’attivismo della delegazione italiana, l’opposizione alla guerra futura fu comunque inserita nelle raccomandazioni finali. Nel corso di tutto il 2002, mentre i bombardamenti sull’Afganistan provocavano milioni di profughi si sviluppò una campagna globale di preparazione dell’opinione pubblica con la fabbricazione di “prove” false, come il “NigerGate”, di informazioni fuorvianti come la segnalazione della presenza di un gruppuscolo Jiadisti nelle montagne del Nord dell’Iraq, di elaborazione di teorie giuridiche come quella della “difesa preventiva”, fino alla presunta “pistola fumante” rappresentata dalla provetta di antrace mostrata da parte del generale Colin Powell al Consiglio di sicurezza dell’Onu e alla composizione della coalizione dei volenterosi.
Quella raccomandazione e quell’impegno preso in Brasile si trasformarono in una proposta concreta di mobilitazione tentando una cosa che non era mai stata fatta: una manifestazione mondiale
Nel frattempo cresceva l’allarme; mezza Europa si dissociava, a cominciare dalla Francia e dalla Germania, e la necessità di una mobilitazione cresceva tra la società civile che da Porto Alegre era rientrata nei rispettivi Paesi. Fu così che nel novembre 2002, durante il Social Forum Europeo di Firenze, quella raccomandazione e quell’impegno preso in Brasile si trasformarono in una proposta concreta di mobilitazione tentando una cosa che non era mai stata fatta: una manifestazione mondiale. La data proposta: il 15 febbraio, fu poi ratificata anche nel successivo Forum mondiale del 2003. La società civile globale era in campo.
La preparazione della manifestazione italiana iniziò già nei primi giorni dopo Firenze, con il metodo unitario che aveva già permesso la grande convergenza nelle giornate di Genova 2001. Una sola parola d’ordine: “No alla guerra senza se e senza ma”, diritto universale di cittadinanza e di parola sulla base di un riconoscimento reciproco di legittimità delle pratiche e delle posizioni di tutti e di ognuno. Nelle lunghe e corali riunioni, nella assenza di barriere “posizionali”, nella ricerca di nuovi partecipanti è cresciuta, senza quasi che ce ne accorgessimo, la più grande manifestazione italiana di sempre. Sul palco di San Giovanni, insieme alle testimonianze di tanti attivisti, i presidenti emeriti della Repubblica e della Camera, Oscar Luigi Scalfaro e Pietro Ingrao sventolarono, insieme, la bandiera arcobaleno. Si parlò di tre milioni di persone.
Ma non accadde solo a Roma. Il 15 febbraio 2003, mentre con lo scorrere dei fusi orari, arrivavano le notizie dalle altre capitali, con numeri straordinari, si componeva il quadro di una umanità che dalle Filippine, a Città del Capo, da Londra a New York, a Baghdad, si era unita per cercare di alimentare il progetto di mettere la guerra fuori dalla storia. Oltre 800 appuntamenti, più di 110 milioni di persone in piazza. Nel commentare il giorno dopo, il “New York Times” parlò della “seconda potenza mondiale”.
La guerra, come sappiamo, non fu fermata. Ma quella manifestazione non fu ininfluente. Italia e Spagna si affrettarono, al primo cambio di governo, ad uscire dall’Iraq portando l’intera Europa, fuori dall’“Alleanza dei volenterosi”. Negli Stati Uniti cambiò la presidenza, Obama tenne il discorso del Cairo e firmò un accordo storico con l’Iran. Per anni nessuno voleva più mettere gli “stivali sul terreno”. Poi è arrivata la crisi economica, le opinioni pubbliche e le società civili hanno dovuto cambiare agenda, la preoccupazione per il futuro è stata catalizzata dall’austerità e dalla crisi climatica. E allo stesso tempo prendeva momentum la contraddizione tra le nuove economie emergenti e la supremazia occidentale ed emergevano nuove potenze locali alla ricerca di spazio. La corsa agli armamenti ha ripreso vigore, superando di molto quella della più dura Guerra fredda.
Il movimento pacifista è oggi più debole, pur continuando ad interpretare, come dimostrano i sondaggi, il senso comune di gran parte della popolazione
L’accresciuta instabilità globale, di cui anche quella guerra del 2003 è stata foriera, così come la più recente aggressione all’Ucraina, stanno facendo crescere il militarismo, mentre si corre il rischio di una assuefazione alla guerra da parte dell’opinione pubblica. In questa situazione, il movimento pacifista è oggi più debole, pur continuando ad interpretare, come dimostrano i sondaggi, il senso comune di gran parte della popolazione anche nella difficoltà, in questi giorni di propaganda bellica, di non arrendersi e di continuare a sostenere la via del negoziato. Nel novembre scorso, pur con le dovute differenze rispetto a vent’anni fa, Roma è stata di nuovo teatro della più grande mobilitazione europea per il cessate il fuoco a sostegno della via del negoziato “Europe for peace”.
Anche a livello internazionale il movimento pacifista è più debole, seppure non insignificante. Come dimostra, ad esempio, il premio Nobel per la pace tributato alla campagna internazionale Ican per l’ottenimento del Trattato Internazionale per la Proibizione delle Armi Nucleari firmato da oltre 92 Paesi in grande maggioranza del Sud del mondo. La Rete Italiana Pace e Disarmo, una delle reti esistenti che raggruppa centinaia di associazioni e comitati laici e religiosi e che non ha mai spesso di lavorare per una cultura di pace nel nostro paese, per interpretare una politica di pace nel mondo attuale, ha lanciato la proposta della “Neutralità Attiva” (che non significa equidistanza tra aggressori e aggrediti). Si tratta della proposta di nuova politica estera per un ruolo italiano ed europeo come potenza di pace nella Terza guerra mondiale a pezzi per il rilancio del multilateralismo come alternativa alla politica della supremazia che l’Occidente sembra aver imboccato.
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