Questo articolo fa parte dello speciale Meno parlamentari: sì o no?
Si può essere perplessi di fronte allo schieramento che ci viene richiesto per il referendum sulla diminuzione del numero dei parlamentari? Sostenere questa riformetta implica un inevitabile supporto a una gretta e disinvolta manovra del grillismo.
Inutile dire che si può fargli cambiare di segno perché in fondo la revisione del numero dei parlamentari era presente da tempo, tanto per dire nei lavori della Commissione Bozzi (1983!), nel programma dell’Ulivo, nella riforma Berlusconi e in quella di Renzi. In tutti questi precedenti c’erano però ragionamenti di taglio costituzionale (condivisibili o meno). I 5 Stelle non hanno alcuna cultura di quel tipo, né l’hanno acquisita ora (basta vedere con quali argomenti fanno oggi propaganda).
D’altra parte affossare una volta di più un tentativo di “aggiornare” (posso per antica militanza nella riforma cattolica usare questo termine di sapore conciliare?) la nostra Carta non mi piace molto dopo aver sostenuto per anni che l’operazione andava fatta. Certo bisogna credere a quanto sostengono volonterosi esponenti del Pd che questo sarà solo un primo colpo di piccone che aprirà la strada a una revisione organica del nostro sistema di rappresentanza. Ma il problema è proprio qui: quanto è credibile questa ipotesi?
Davvero la debolezza della sgangherata riformetta grillina è sanabile con la riforma elettorale in via di definizione? La cosa non è convincente per due ragioni. La prima è che quanto si propone è progettato solo nell’ottica di favorire un sistema di tipo proporzionale che impedisca la preminenza del centrodestra, visto che il centrosinistra come coalizione non si sa se esista davvero. Non ci sono in esso novità rilevanti per garantire un maggior peso della volontà degli elettori rispetto alle varie “macchine politiche” oggi sulla scena (per definirli partiti ci vuole del coraggio).
Peraltro una recente e accurata simulazione dell'Istituto Cattaneo sul risultato che potrebbe arrivare dal nuovo sistema costituzionale ci mostra che si andrebbe semplicemente a congelare una competizione nei termini attuali, cioè consegnando tutto alle possibilità di spostamento di Forza Italia e dei piccoli partiti come IV, LeU, Azione di Calenda, perché i due blocchi ipotetici si più o meno si equivalgono. Definire questa una via per stabilizzare e rilegittimare il nostro sistema (che ne avrebbe gran bisogno viste le acque in cui ci troviamo a navigare) mi sembra arduo.
La seconda considerazione da fare è che non si scioglie il tema centrale per la debolezza del nostro sistema: l’assenza di un bicameralismo che garantisca, accanto a una rappresentanza delle “macchine politiche” (un tempo erano ideologie sociali, ora non più), un tipo diverso di rappresentanza, che consenta l’instaurarsi di una dialettica con altri tipi di interessi e di agenzie presenti nel Paese. Non è possibile richiamare qui le ragioni per cui la scelta della nostra Carta di promuovere in qualche modo questa dialettica è stata da sempre disattesa; diciamo solo che su questo tema la nostra Costituzione sta ancora aspettando di essere portata a compimento. Per questo le disinvolte proposte di rendere banalmente eguale il meccanismo di selezione della seconda Camera omogenizzando i due elettorati attivi e passivi e abolendo la base regionale per determinare i collegi sono di fatto proposte indecenti perché prospettano non una riforma, ma un tradimento della nostra Carta. Il bicameralismo è una cosa molto seria, specialmente in un Paese frammentato e diviso come il nostro, perché una vera seconda Camera potrebbe attivare meccanismi di ricomposizione (lasciando perdere le fantasie sulla rappresentanza dei territori con i sistemi attuali: basti pensare al caso della Boschi eletta in Sudtirolo…).
Le ragioni che vengono portate per sostenere le proposte Fornaro di cui sopra sono che così si eviterà di avere due Camere che possono non essere omogenee nel dare la fiducia al governo, ma soprattutto nel votargli la sfiducia (come è accaduto), sicché nel caso non si sa per quale conflitto con la rappresentanza popolare un governo debba cadere. L’obiezione non è ovviamente infondata, ma non si risolve col pasticcio di duplicare la stessa Camera sotto due diverse denominazioni, ma semplicemente decidendo, come è in quasi tutti i sistemi costituzionali bicamerali, che la fiducia è prerogativa di una sola delle due Camere (cosa che, invece, i nostri politici non vogliono, perché questo sì, nella loro modesta ottica di politicanti, renderebbe quelli di una Camera meno “potenti” di quelli dell’altra).
Ovviamente di questioni ce ne sono anche altre: l’introduzione della sfiducia costruttiva, giusto per citarne una. Naturalmente si obietta che mettere mano a una riforma organica e sensata richiederebbe un tempo e difficoltà che non si sa come affrontare. Ci permettiamo di ricordare che comunque anche le disinvolte riforme appena citate richiedono il passaggio per l’iter della riforma costituzionale e dunque tempi lunghi (che naturalmente vanno molto bene a tutti quelli che con questa scusa pensano di evitare anche il piccolo rischio di elezioni anticipate, e soprattutto vogliono insensatamente congelare la situazione attuale per sfruttarla quando si voterà la successione a Mattarella).
Dunque piuttosto che andare avanti a colpi di mano, facendo di fatto da sponda al populismo grillino (che non demorde), non sarebbe meglio prendere il toro per le corna lasciando cadere questa riformetta e avviando poi una riforma degna di questo nome? Ma se facendo così si finisse solo per compiacere quelli che vogliono tenersi tutto come è, considerando invece che non si avviano cambiamenti costituzionali senza un fatto in qualche misura traumatico? Ecco il dilemma che si presenta all’elettore responsabile, e al sottoscritto, nel silenzio della cabina referendaria del prossimo 20-21 settembre.
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