Se nella nostra democrazia social ognuno sente di poter formulare opinioni su una vasta gamma di argomenti (dalla virologia, allo sport, alla finanza ecc.), sulla scuola questo aspetto è particolarmente evidente e crea una serie infinita di cliché e falsi miti, prestando il fianco a spot elettorali e a una propaganda lontanissima dalla realtà.

Se si avessero, invece, la pazienza e la volontà di varcare la soglia di una qualsiasi scuola pubblica italiana e si potesse passare qualche ora in un'aula, tra i tanti rumori, il vociare e lo stridore delle sedie sul pavimento, si riuscirebbe ad ascoltare le parole degli studenti, in quei rari momenti di silenzio, quando alzano la mano e con uno sguardo vivace si apprestano a dire qualcosa che sta loro a cuore. Forse parlerebbero della loro scuola ai tempi del Covid, del nuovo modo di vivere la socialità con i compagni e certamente descriverebbero le nuove regole sulle mascherine, la disposizione dei banchi singoli – piccoli e distanziati tra loro – le ricreazioni trascorse seduti al proprio posto e il loro tempo libero, “contagiato” anch’esso dalla pandemia.

Girando tra i banchi di una scuola media della periferia sud di Roma, con Ffp2 e alla giusta distanza, si potrebbero trascorrere ore a fare domande, ad ascoltare e ad annotare sulla lavagna le frasi di Cristian, Luana, Alessio, Davide, Asia, Aurora, Greta, Sara, Ginevra, Martina: “Non si può più fare niente”; “Scuola = carcere”; “Viviamo intrappolati nel banco e  incollati alla sedia”;   “Mi sto chiudendo sempre di più in me stessa” ; “Le nostre menti stanno diventando sempre più chiuse a forza di stare lontani”. Ricorrerebbero parole come “noia, stress, diffidenza, confusione, solitudine” e uno slogan al centro: “Non c'è più contatto e solidarietà con i compagni: la scuola di oggi è ognuno per sé”.

Una scuola più stancante, noiosa, statica, fredda, con o senza finestre aperte, soffocante sotto le mascherine, rigida tra mille nuove regole e restrizioni e meno accogliente e inclusiva

Leggendo i dati scopriamo inoltre che il periodo della pandemia ha causato malessere psicologico, ansia e depressione nei giovani, e secondo l’Ocse, ha accresciuto il divario tra l’Italia e il resto d’Europa per numero di Neet (Not in education, employment or training). Diminuiscono poi le competenze di base degli studenti italiani, come quelle logico-matematiche o di comprensione di un testo scritto, e aumenta drammaticamente l’abbandono scolastico (13%), mettendo in discussione la funzione della scuola che invece di agire da facilitatore di mobilità sociale non fa altro che consolidare e aggravare le disuguaglianze sociali.

Tra un proclama e l’altro, la scuola sembra ancora abbandonata a se stessa, ai suoi edifici vecchi e fatiscenti, con il 40% non a norma e più della metà senza certificato di agibilità  (Rapporto Censis 2021), alle sue classi pollaio in cui i propositi della didattica personalizzata e inclusiva diventano solo la retorica dei buoni propositi, a dotazioni tecnologiche insufficienti, senza laboratori e strutture adeguate, senza connessioni wi-fi per una scuola su tre, in cui, però, si valutano e certificano le tanto sbandierate competenze digitali, acquisite (privatamente?) chissà dove.

Non va meglio per la classe docente, sballottata in qualsiasi momento dell’anno da una scuola all’altra, senza alcuna formazione pedagogica e didattica, abbandonata a un precariato decennale in continuo aumento (213.000 precari secondo gli ultimi dati Anief 2021), per cui le continue riforme scolastiche non sembrano indicare soluzioni.

A ben vedere, quindi, la desolante immagine della scuola italiana nel periodo del Covid diventa solo la punta dell’iceberg di problematiche e criticità che affondano le proprie radici in decenni di scelte miopi, di ipocrisie e di tagli all’istruzione pubblica, in cui il tema della scuola sembra assumere una centralità fittizia nelle politiche pubbliche solo nei telegiornali e nei comunicati stampa propagandistici.

In realtà, infatti, negli ultimi vent’anni l’Italia non ha fatto altro che diminuire la percentuale di spesa pubblica da destinare al sistema educativo, passando da circa il 10% nel 2000 all’8% oggi. Stando ai dati Eurostat, l’Italia è il Paese europeo che investe di meno, in percentuale, in “educazione” che comprende scuola dell’obbligo, università e servizi sussidiari per l’istruzione.

Il Covid non ha fatto altro, dunque, che portare alle estreme conseguenze dinamiche già in corso da decenni e aggravate, in questi mesi, da una mala gestione della pandemia che sta rendendo drammatiche le condizioni della scuola oggi. Ma proprio questa crisi può offrirci un’occasione importante per aprire gli occhi e ripensare la scuola del futuro.

L'immagine desolante della scuola italiana nel periodo del Covid è solo la punta dell’iceberg di problematiche e criticità che affondano le proprie radici in decenni di scelte miopi, di ipocrisie e di tagli all’istruzione pubblica

“Come immaginate la vostra scuola ideale, quella del futuro, a misura vostra?”: potrebbe essere una buona domanda per distrarre la classe e farla reagire a un'atmosfera un po' triste e rassegnata che aleggia. Dopo qualche secondo di silenzio tra gli alunni della 1B, si inizierebbero a sovrapporre le voci e le mani alzate: “Io vorrei più tecnologia, tablet e computer”; “Sarebbe bello poter stare di più all’aria aperta e fare più sport”; “Invece di studiare arte solo sui libri potremmo fare gite e ascoltare le guide che ci spiegano i monumenti”; “Potremmo anche sentire concerti o suonare insieme”; “Anche conoscere scrittori”; “A me piacerebbe poter leggere in una biblioteca, mi darebbe serenità”; “Si potrebbero fare esperimenti di scienze nei laboratori, sarebbe divertente”; “Io vorrei fare teatro”.

Si potrebbe rivolgere la stessa domanda ai ragazzi della 3D che sono in Didattica a distanza e dalle espressioni sembrano un po’ annoiati e demotivati. L’argomento, a differenza della precedente lezione di storia sul Risorgimento, sembrerebbe interessarli e stimolarli e allora si potrebbe sbirciare quello che scrivono nel documento Google condiviso, in cui si sovrappongono parole e colori disposti alla rinfusa. Si leggerebbe così il parere di Beatrice che di solito è all’ultimo banco e non interviene spesso: “La mia scuola ideale è una scuola dove l’apprendimento è più facile e divertente, dove si possono fare lavori di gruppo, le lezioni all’aperto e gite, sia per imparare, ma anche per lo svago, così da avere una scuola un po’ meno ‘stressante’ e che ci faccia venire voglia di studiare di più”.

Quasi passa la voglia di tornare alla realtà dei documenti ministeriali e delle frasi ad effetto dei ministri, quasi si è tentati di chiudere la porta delle classi e lasciare fuori la scuola di oggi e di domani: la scuola-azienda della produttività, del Dirigente manager che deve soddisfare le esigenze dei clienti/genitori e deve inventare mille progetti e sottostare agli standard di valutazione ministeriale per racimolare qualche soldo in più; la scuola cinica dell’Alternanza scuola-lavoro che ha iniziato a mietere le sue prime vittime; la scuola delle imprese private, come Leonardo, Eni, Toyota, Autogrill, Campari ecc., che decideranno i programmi di insegnamento per i tanto blasonati licei sperimentali Ted (Transizione ecologica e digitale); la scuola classista e competitiva che prescrive ripetizioni private (pagate in nero?) per le famiglie che se lo possono permettere e che lascia indietro tutti gli altri.

“Sarebbe bello studiare e imparare divertendosi” aggiungerebbe Ludovica. Sarebbe bello  ̶  come darle torto? Sarebbe bello se la scuola aprisse la sue porte dalla mattina alla sera, diventasse punto di riferimento per il territorio, si facesse comunità aperta agli studenti e ai quartieri per dare supporto gratuito allo studio, per attività di teatro, sport, cineforum, musica, arte, orto didattico, esperimenti, orientamento per le scelte future, sportello psicologico; sarebbe bello se ritrovasse la sua vocazione e la missione prevista dalla Costituzione, la sua origine etimologica “l’ozio della mente”, più lontano che mai dalle logiche del mercato e del profitto; se riscoprisse la sua dimensione di gioco, di divertimento; se facesse proprie le parole di Simon Weil: “L'intelligenza cresce e porta frutti solo nella gioia. La gioia di imparare è indispensabile agli studi come la respirazione ai corridori”.