Una coppia alle prese con la crescita dei propri figli in questi ultimi anni potrebbe aver ricevuto questo suggerimento educativo: «Non dovresti dire "bravo" a tuo figlio! Invece di favorire lo sviluppo della sua autostima, rischi di minarla. Bloccato dall'idea di dover essere bravo molto probabilmente diventerà un adulto perfezionista, soffrendo magari anche della sindrome dell'impostore, convinto di non meritare mai qualunque tipo di successo e di essere invece totalmente colpevole dei propri fallimenti». Il neogenitore si sentirà spaesato, preoccupato. Come evitare di dire bravo a mio figlio quando impara a camminare? È davvero sufficiente una sola parola per minare l'autostima di qualcuno? Perché dovrebbe pensare di non meritare i suoi successi? Ed è giusto che lo pensi? Oppure no?
Ovviamente non è così semplice, studi di psicologia, pedagogia e filosofia non si esauriscono in poche righe. La parola «bravo», l'idea del fare le cose «bene», ha però davvero un ruolo importante quando si tratta di discutere l'idea di merito. E anche la cura per l'educazione e la crescita dei propri figli, l'autostima e il successo personale costituiscono punti chiave della rete entro la quale si muove il dibattito attorno a questo concetto.
Il complotto contro il merito, pubblicato da Laterza lo scorso ottobre, è una difesa del merito e della meritocrazia. Marco Santambrogio, socio fondatore della Esap (European society for analytic philosophy) e della Sifa (Società italiana di filosofia analitica) ha insegnato Filosofia del linguaggio in diversi atenei italiani. Santambrogio ha le idee chiare sul merito: «Voglio sostenere che il merito esiste e va riconosciuto. Ma non penso che coloro che si trovano a occupare le posizioni migliori nella nostra società abbiano in media meriti maggiori di altri». È spinto dall'urgenza, come lui stesso la definisce, di offrire un discorso scevro da pregiudizi e ben strutturato a proposito delle critiche che da cinquant'anni vengono rivolte a questo concetto. Per Santambrogio l'Italia deve ripensare l'istruzione e riformare la scuola nel modo più giusto e allo stesso tempo efficiente. Il libro tiene quindi ben stretto il legame tra merito e istruzione, vuole essere rivolto al futuro e guarda oltreoceano, ma si rivela anche denso di esperienza e conoscenza del passato culturale e politico italiano.
Una prima parte, intitolata La società spietata, è pensata per descrivere i principi del programma meritocratico: il principio delle carriere aperte ai talenti, l'uguaglianza delle opportunità, i posti e le posizioni che devono essere meritati. Ricostruita la storia dell'idea di merito, da James Conant di Harvard a Michael Young in Gran Bretagna, l'autore passa alle recenti critiche alla meritocrazia. Fra queste uno dei punti di riferimento più importanti per Santambrogio è l'opera di Michael Sandel, sebbene rivolta al contesto degli Stati Uniti e al mondo delle università di élite. In The Tyranny of Merit. What's Become Of The Common Good? pubblicato nel 2020, Sandel ha infatti discusso con argomenti forti il concetto di merito. L'idea di merito forgia una società competitiva, una rigida e spietata corsa della vita, in cui chi vince si gode il premio con arroganza e chi perde si punisce per la propria sofferenza. Se sei bravo in qualcosa che ha successo, vai avanti, se non sei bravo in niente, peggio per te. Insieme a Sandel, Santambrogio presenta e discute le critiche al merito di Friedrich von Hayek e John Rawls. Conclude questa prima sezione valutando l'alternativa proposta da Sandel di eliminare la selezione universitaria in base al talento con un occhio rivolto al '68 italiano e alle richieste di Don Milani.
Quello che dobbiamo desiderare è un merito relativo, contestuale e variabile, comparativo ma anche e soprattutto non comparativo, in quella che Santambrogio identifica come “una moltiplicazione” di valori e tipi di talento, auspicando nel riconoscimento del valore di ciascun essere umano, nella sua diversità
Nella seconda parte, La meritocrazia dal volto umano, Santambrogio offre la spinta propositiva, le argomentazioni che rispondono alle critiche, assumendo come punto di partenza la teoria aristotelica per la quale «la giustizia consiste nel dare a ciascuno ciò che merita». È anche la parte del libro più tecnica, che attinge alla filosofia politica, in cui si affronta l'uso comune del termine merito, cosa sia una base del merito, la distinzione tra merito e titolo, tra merito morale e non morale, muovendosi nella cornice del rapporto tra merito e giustizia e tra merito ed eguaglianza. Viene qui dedicato uno spazio a John Rawls e al principio del controllo, l'idea che per meritare una persona deve poter avere controllo su ciò che fa e sulle caratteristiche che possiede. Anche Joel Feinberg ha un ruolo essenziale in questa parte del testo, perché l'analisi del suo argomento sul merito consente a Santambrogio di proporre quello che chiama un cambio di prospettiva, dalla distribuzione delle ricchezze alla distribuzione degli onori, posti e posizioni sociali, scardinando l'idea che meritare un certo ruolo significhi anche meritare una certa retribuzione.
La proposta di Santambrogio viene a questo punto esplicitata: quello che dobbiamo desiderare è un merito relativo, contestuale e variabile, comparativo ma anche e soprattutto non comparativo, in quella che Santambrogio identifica come «una moltiplicazione» di valori e tipi di talento, auspicando nel riconoscimento del valore di ciascun essere umano, nella sua diversità. L'autore si concede anche di rivolgere una critica ai critici: le società che desiderano, prive di merito o solo caratterizzate dal riconoscimento dei titoli, sono deprimenti. È proprio qui che Santambrogio esprime la sua convinzione che le persone hanno proprio bisogno di sentirsi dire «Bravo!», altrimenti ci si sente frustrati, abbandonati, delusi e soli.
L'argomento oscilla qui tra filosofia e psicologia e ci riporta al consiglio per i neogenitori: il dire «bravo» potrebbe generare l'incapacità della persona a sentirsi meritevole. Per Santambrogio invece è proprio sentire dagli altri di saper fare qualcosa bene che aiuta le persone a riconoscere i propri meriti e ad avere autostima. In cosa si crea questo cortocircuito e perché vale la pena ascoltare entrambe le versioni? Per Santambrogio «quello che si sa fare meglio coincide con ciò che si fa con maggior piacere». E questo dovrebbe essere condivisibile per chi si preoccupa per l'autostima dei bambini e degli adulti che saranno, perché ci si concentra sulla motivazione interna della persona a esercitarsi per fare quel determinato compito e non sul riconoscimento esterno a cui deve aspirare.
Per Santambrogio "quello che si sa fare meglio coincide con ciò che si fa con maggior piacere". E questo dovrebbe essere condivisibile per chi si preoccupa per l'autostima dei bambini e degli adulti che saranno
Santambrogio scrive però anche che le persone dovrebbero cercare il proprio talento, studiare per perfezionarlo, e infine scegliere un modo per contribuire alla società. Ed è proprio per questo che il nesso merito-istruzione risulta così importante per l'autore. È con la scuola che dovrebbe realizzarsi la scoperta del talento di ciascuno. Ma cosa accade se ciò che ci piace non è anche ciò in cui abbiamo davvero talento? E se le risorse sono poche e non riusciamo a ottenere il posto che desideriamo nel mondo?
Le preoccupazioni di chi guarda storto il merito nascono anche dalla paura che l'estrema difficoltà di realizzare i principi del programma meritocratico si accompagni a una mancanza di risposte alla domanda, come fare a gestire le diverse responsabilità di ruolo? Santambrogio risponde che «se tutti avessero qualcosa che sanno fare bene e potessero vivere decentemente con quanto guadagnano esercitando i loro talenti» l'immagine della società gerarchica non esisterebbe più, perché ciascuno cerca il proprio posto nel mondo per essere «utile a sé e agli altri». Ma ciò non esclude che il capo di una azienda abbia responsabilità di vario tipo enormi rispetto all'impiegato da lui assunto. Esisteranno attestazioni di stima differenti, e i diversi ruoli sociali implicheranno comunque grandi disparità di potere economico e non solo, come l'autore stesso riconosce. Per questo, sostiene, bisogna spostare l'attenzione dalla retribuzione al posto sociale. Nella società auspicata ciascuno si dovrebbe sentire bene dove sta.
Ma come si devono relazionare posizioni sociali differenti? Ecco che vale la pena approfondire il nesso merito e potere e il ruolo del rispetto. È nell'esercizio del potere che si gioca il cortocircuito e l'incomprensione tra il dire e il non dire «bravo». Come ha scritto la psicologa e psicoterapeuta Silvia Masserini, tra genitore e bambino la relazione è asimmetrica, il genitore ha un potere enorme. Ed è come utilizza questo potere che fa la differenza. Non è il dire «bravo» a cambiare le cose. E allora, viceversa, il punto del merito non può essere solo l'incentivo, non può essere il sentirsi capace, ma appunto il piacere. Il piacere in sé, non il piacere di sentirsi dire «sei bravo».
Il complotto contro il merito è un libro davvero democratico, alla portata di tutti, ben strutturato, pensato per dare un nuovo respiro a un concetto importante e complicato. Non vuole essere un libro esaustivo per quando riguarda l'aspetto tecnico, accademico e filosofico politico, ma ha il pregio di rendere possibile pensare che esista un merito positivo, umano. Invece di aprire un nuovo muro in un dibattito pervaso da chiusure e incomprensioni, apre una finestra, con un nuovo sguardo, per dare voce al desiderio di sentirsi davvero in una società giusta.
Riproduzione riservata