È trascorsa circa una settimana da quando i media nazionali hanno rilanciato la notizia di una scuola romana che, presentandosi sul suo sito internet, avrebbe caratterizzato le sue tre sedi in termini classisti. Come in altre occasioni, quando la scuola entra nel faro d’attenzione del dibattito pubblico, prevalgono il tono scandalizzato e una scarsa capacità di contestualizzare ciò che si sta riportando. La gran parte della stampa nazionale ha trattato la notizia lasciando intendere che la scuola di via Trionfale mettesse in atto un’esplicita politica classista separando gli alunni nei suoi tre plessi in base al censo: “Ecco la scuola che divide gli alunni in base alla classe sociale”.
Si è poi compreso che il riferimento alla condizione socioeconomica degli studenti era ripreso da un rapporto di autovalutazione (Rav) compilato seguendo le indicazioni del ministero. Le scuole sono accompagnate nella compilazione del Rav da alcune domande guida, alcune delle quali fanno riferimento al background familiare degli studenti. In questo non c’è nulla di scandaloso poiché si tratta di informazioni di cui occorre tenere conto per attuare politiche scolastiche inclusive.
Il problema, però, è che da qualche anno si è fatta largo l’idea che le scuole debbano essere trasparenti, che debbano dar conto di ciò che sono, di ciò che fanno, dei risultati raggiunti e così via. E così i Rav, assieme a molti altri indicatori, sono visibili sulla piattaforma governativa “Scuola in chiaro”. Questo è in linea con un approccio di impronta neoliberale, teso cioè a fare del sistema scolastico un mercato che si regola attraverso le scelte informate delle famiglie. I sostenitori di questo approccio ritengono che in questo modo le scuole saranno portate a migliorarsi per attrarre studenti. Tuttavia, come mostra la vicenda di via Trionfale, alcune informazioni possono fornire un’indicazione alle famiglie perché scelgano la scuola più conforme al proprio status.
Così, al coro dell’indignazione, hanno preso parte anche il sottosegretario all’istruzione De Cristoforo e la neoministra Azzolina, che hanno sostenuto sia un errore fornire informazioni sul background socioeconomico degli studenti. La descrizione, in ultimo, è stata rimossa. Ma si ha l’impressione che si sia alzato un gran polverone che nasconde ciò che dice di voler mettere in luce dietro una coltre di facili semplificazioni e dietro la colpevolizzazione dell’operato di una singola scuola. Si ha l’impressione, soprattutto, che la scuola italiana possa continuare a essere classista purché non nomini la classe.
Una scuola che nasconde i riferimenti alle condizioni socioeconomiche dei propri studenti non è meno classista di una che li rende pubblici. Le informazioni sulla qualità “sociale” di una scuola circolano informalmente nelle reti dei genitori e queste informazioni orientano le scelte in modi che rafforzano la segregazione scolastica. Non possiamo nasconderci che molti dei giornali che usano toni scandalizzati per descrivere la vicenda di via Trionfale rilanciano ogni anno la classifica sulla qualità formativa delle scuole pubblicata dalla Fondazione Giovanni Agnelli. Questa classifica, pur utilizzando il concetto di qualità formativa, non è molto più di una classifica dello status socioeconomico delle scuole. Ecco, si può essere classisti, pur senza nominare la classe.
Può allora essere utile prendere questa vicenda come un’opportunità per mettere in fila qualche breve ragionamento a mente fredda. Senza farci distrarre dal dito che indica la luna, chiediamoci: in che modo la scuola italiana è classista?
Propongo un elenco, certamente non esaustivo, di pratiche e meccanismi che, lontano dai moti episodici di indignazione pubblica, riproducono il classismo nel banale scorrere della quotidianità scolastica. Ma una premessa è doverosa. Il classismo della scuola non è solo imputabile alla scuola, ma è l’esito di una complessa articolazione di problemi che riguardano più dimensioni. Per rimanere al caso della scuola di via Trionfale è evidente che il tema della segregazione scolastica è inscindibile da quello della segregazione abitativa. Così come è evidente che le disuguaglianze economiche, crescenti, non possono non accrescere il divario tra chi può permettersi un’istruzione di elevata qualità e chi no.
Nell’elenco che segue faccio però riferimento solo a ciò su cui può intervenire una politica strettamente scolastica, mi soffermo sugli aspetti che mi sembrano meno presenti nel dibattito pubblico e solo su ciò che è supportato dalla ricerca empirica.
- La scuola è classista ogni volta che richiede agli studenti di svolgere uno studio individuale (ad esempio i compiti a casa) ignorando del tutto le diverse risorse culturali, linguistiche e abitative a cui hanno accesso.
- La scuola è classista nei modi in cui gestisce l’allocazione degli insegnanti. Le scuole più ambite, quelle cioè dove secondo molti è più semplice e stimolante insegnare, hanno mediamente un corpo docente più stabile, più esperto e più formato.
- La scuola è classista quando boccia. Con buona pace di coloro che si rammaricano per la scomparsa della scuola selettiva di una volta, la scuola boccia ancora e boccia in larga misura studenti di bassa estrazione sociale. E quando boccia non offre opportunità ulteriori di apprendimento (la bocciatura non ha quasi mai ricadute in positivo in questo senso), ma attiva un processo di progressiva disaffezione che in molti casi porta all’abbandono precoce.
- La scuola è classista quando chiede a preadolescenti di 13-14 anni di scegliere tra un indirizzo liceale, tecnico o professionale in barba a qualsiasi considerazione non solo pedagogica o sociologica, ma anche di tipo economico. È uno snodo cruciale che sappiamo essere il principale meccanismo di riproduzione della disuguaglianza sociale nel nostro Paese.
- La scuola è classista quando di fronte a scelte importanti per definire le traiettorie scolastiche e sociali degli studenti mette in atto pratiche orientative che tendono a privilegiare gli studenti provenienti dai ceti medi e alti.
- In mancanza di interventi correttivi, è classista la scuola dell’autonomia quando l’utilizzo di modelli di governance "a rete" tende a favorire le scuole e i territori più ricchi di capitale sociale e più capaci di attivarsi nel campo scolastico in virtù di una posizione di privilegio.
- Il classismo si annida nel modo in cui si articolano procedure più o meno formalizzate che tendono a produrre forme di micro-segregazione all’interno della medesima scuola o all’interno della medesima classe. In che modo la scuola abdica al dettato costituzionale nei suoi tentativi di individualizzare gli obiettivi di apprendimento per le categorie che si ritiene abbiano bisogni speciali di apprendimento (Bes)? Chi lavora a scuola sa bene che i “Bes” (così vengono chiamati) sono in larga parte immigrati e studenti di bassa estrazione sociale.
- Il classismo dei sistemi educativi interroga il rapporto tra la scuola e la pluralità di esperienze culturali e di vita che caratterizzano le nostre società. Quali di queste esperienze culturali vengono valorizzate tra le mura scolastiche? Questa è una vecchia domanda attorno a cui si sono sviluppate importantissime riflessioni sociologiche, pedagogiche, antropologiche, che sembrano oggi cadute nell’oblio. In che modo questo tema viene trattato nella già scarsissima formazione per gli insegnanti?
Che la vicenda della scuola di via Trionfale ci aiuti allora a impostare il discorso nei giusti termini. Se non si vuole che la scuola sia classista, allora la classe occorre nominarla. E occorre nominarla ogni volta che in modi più o meno plateali si insinua nella vita scolastica creando separazioni e gerarchie. Occorre nominare la classe per smantellare tutti i meccanismi attraverso cui produce disuguaglianza. Per farlo, occorre aprire un tavolo di discussione che chiami a raccolta tutte quelle realtà, associazioni, docenti, movimenti, che provano a praticare ogni giorno una scuola anti-classista. Queste realtà sono innumerevoli e si muovono nel contesto di una politica governativa che (finora?) si è caratterizzata per aver largamente ignorato il problema: o meglio, che negli ultimi decenni ha attuato riforme che sembrano aver esacerbato processi presenti da sempre.
Che si ricominci a parlare di classismo a scuola allora. Ma non per gridare al declino, allo scandalo, ma per avere coscienza della complessità e interconnessione tra le diverse dimensioni attraverso cui il classismo si produce e si impone. Per la sua capacità di favorire gli studenti privilegiati, il nostro Paese spicca nei confronti internazionali. Questo può generare rabbia, al peggio sconforto, ma se la politica e la scuola italiana raccoglieranno la sfida potremmo avere innumerevoli spazi per agire, per iniziare ad applicare il dettato costituzionale e per fare della scuola una vera palestra di democrazia.
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