«Sembrava un titolare di cattedra ad Harvard che è stato incaricato di una supplenza all'alberghiero di Massa Lubrense»: così, riferendosi a Mario Draghi durante il suo discorso al Senato di mercoledì mattina, la giornalista Concita De Gregorio nel corso del talk show In Onda che conduce su La7. Come lei stessa ha chiosato per essere certa di non essere fraintesa, il riferimento era a una persona di grande valore e spessore culturale che deve confrontarsi con dei mediocri che non lo meritano, e che vanno quindi lasciati al loro destino.
Le parole di Concita de Gregorio – giornalista molto nota, tra l’altro in passato direttrice de “L’Unità” – non sono passate sotto silenzio. È stato fatto notare come trasudassero spocchia, snobismo e classismo, mostrando un’idea di divisione tra classi fondata su una presunta valutazione di tipo meritocratico. Quella meritocrazia la cui narrazione è stata ripetutamente stroncata da innumerevoli ricerche e da diversi osservatori e intellettuali in tutto il mondo. Gli studenti di Harvard, seguendo quella narrazione, sarebbero lì perché sono i migliori e si sono guadagnati l’ammissione e la permanenza in quella prestigiosissima università americana. Rappresentano la futura classe dirigente e per questo meritano i docenti più esclusivi e preparati.
Le cose non stanno proprio così. L'ammissione ad Harvard e altre scuole di simile prestigio sempre più riproduce e anzi amplifica le disuguaglianze economiche e sociali. Ragazzi che vengono da famiglie agiate hanno una probabilità enormemente maggiore di essere ammessi, e non necessariamente per le loro doti innate; spesso in virtù di scuole superiori private e costosissime (decine di migliaia di dollari di retta all’anno) che grazie alle loro famiglie ricche si sono potuti permettere, o grazie al fatto che si sono potuti preparare meglio ai test di ammissione ricorrendo a precettori e a corsi dispendiosi. Inoltre, in queste scuole, una quota di ammissione è riservata a “legacy students”, studenti i cui genitori o altri avi hanno già frequentato la medesima università. Chi si laurea qui ha una probabilità molto più alta, anche rispetto ad atenei di buon livello ma non così élitari, di finire a far parte dell’1% più ricco della popolazione (almeno 630 mila dollari di reddito annuo). Anche in questo caso non solo per merito, ma in molti casi per le conoscenze e le reti sociali che si sono venute a creare durante gli studi, a loro volta spesso connesse a quelle delle famiglie di origine.
L'ammissione ad Harvard e ad altre scuole di simile prestigio sempre più riproduce, e anzi amplifica, le disuguaglianze economiche e sociali di provenienza
Naturalmente non si tratta di negare il valore e il prestigio di queste istituzioni, né di ignorare l’esistenza di borse di studio per i meno abbienti (borse che però in alcun modo riequilibrano le disparità sociali). Piuttosto occorre notare che prendere a modello di “merito” Harvard contrapponendovi scuole frequentate da chi non ha certe opportunità è, oltre che infelice e inopportuno, assai poco progressista. Oltretutto, si dà il caso che fenomeni simili si registrano anche in Italia: seppure in un sistema largamente pubblico e con rette universitarie non certo astronomiche, a frequentare e completare gli studi sono soprattutto i figli di famiglie benestanti.
Molti ragazzi frequentano istituti professionali perché privi di alternative, perché vengono da anni di scuola primaria affrontati con difficoltà a causa di ristrettezze economiche o difficili situazioni famigliari, perché pensano di non essere in grado di frequentare o di non potersi permettere il liceo e l’università. Prendersela con chi fa supplenze all'Istituto alberghiero di Massa Lubrense è segno di scarso rispetto per i tanti insegnanti che vanno in periferia, se non per le strade, sottopagati e mai difesi, per portare qualcosa anche a quegli studenti che a scuola più fanno fatica, nella convinzione che tutti debbano avere un’opportunità e che i talentuosi, i volenterosi, i curiosi ci siano in tutte le fasce sociali della popolazione.
Molti ragazzi frequentano istituti professionali perché privi di alternative, o perché vengono da anni di scuola primaria affrontati con difficoltà a causa di ristrettezze economiche o difficili situazioni famigliari
Se mi si consente un riferimento biografico personale, oggi io sono professore in un’università del Canada. Prima ho insegnato in un’università negli Stati Uniti, dopo aver conseguito, sempre in quel Paese, un dottorato di ricerca. Ho condotto seminari in molti atenei, incluso Harvard. Ma conosco anche una maestra elementare, ora in pensione, che dal suo paese in Basilicata ebbe assegnata come suo primo incarico di insegnamento una scuola speciale di Bari per bambini con disturbi cognitivi e dell’apprendimento. Lì rimase a lavorare alcuni anni, fra mille difficoltà, per sostenere quei bambini. Onestamente non credo che il mio contributo sociale sia maggiore di quella giovane maestra (che, incidentalmente, è mia madre) e di tutti quegli insegnanti che come lei, giorno dopo giorno, si sono dati e si danno da fare, anche negli istituti alberghieri di provincia. Sono tanti gli studenti e le studentesse che hanno bisogno di insegnanti di grande valore, come molti dei nostri insegnanti per fortuna sono. Stigmatizzarli non solo non li aiuta, ma non aiuta neppure l'immagine che i lettori e gli ascoltatori possono farsi del livello del nostro giornalismo.
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