Il 23 novembre 1948 il giovane normalista Claudio Cesa scriveva al compagno di studi Giorgio Tonelli parole almeno all’apparenza irridenti sulle scelte tematiche degli insegnamenti di uno dei suoi più affermati professori pisani: “Il nostro Calogero, tanto per cambiare, fa sia alla Normale che in Sapienza un corso sulla Storia di Croce, il che gli permette di tirar fuori le più commoventi sciocchezze sull’apertura nei confronti degli altri e simili cose capitiniane”.
Se non si trattasse di divertite confidenze tra studenti, volutamente sopra le righe nei toni, queste parole striderebbero di fronte all’interesse e alla stima che il giovane piemontese arrivato da un paio d’anni a Pisa mostrava sia per le riflessioni politiche e religiose di Aldo Capitini, sia soprattutto per il magistero di Guido Calogero, che pochi mesi prima era stato suo relatore per il colloquio annuale d’idoneità svolto – significativamente – su un tema assai più consolidato, come il trattato Sull’interpretazione di Aristotele. Piuttosto, il giudizio tranchant di Cesa sembrava riprendere, forse nemmeno del tutto inconsapevolmente, le ammonizioni che dieci anni prima il direttore della Scuola Giovanni Gentile faceva al suo allievo romano, da lui chiamato a Pisa poco prima essenzialmente per garantire esercitazioni sulle fonti filosofiche antiche, ogni volta che sceglieva di cimentarsi su temi di attualità filosofica più scottante, come il Dewey politico o addirittura il pensiero sociale di Marx. Negli anni Trenta il problema di simili scelte poteva anche essere politico, andando la curiosità del filosofo a interessarsi a temi non esplicitamente proibiti sul terreno della riflessione accademica, ma tutt’altro che incoraggiati e finanche sospetti nella stretta autoritaria conosciuta allora dal fascismo. In generale, però, l’atteggiamento verso Calogero espresso prima dal maestro e poi dall’allievo sembrano convergere su un comune interrogativo di natura piuttosto diversa: perché un antichista di vaglia come lui si ostinava a non proporre nelle lezioni e negli studi ciò che ci si aspettava, e che sarebbe apparso utile e sanamente “tradizionale” agli studenti in formazione, per avventurarsi in un lavoro intellettuale di tutt’altro tipo, con esiti didattici incerti e rischiando di minare con uno scivolone un’autorevolezza che altrimenti sarebbe stata fuori discussione?
A ben guardare, un destino del genere ha finito per caratterizzare la fortuna di Calogero anche dopo la sua morte, avvenuta nel 1986 (era nato il 4 dicembre 1904). Numerosi lettori e commentatori – spesso in vario modo eredi di una delle imprese teoriche, accademiche o politiche che caratterizzarono gli anni del suo ritorno all’Università di Roma nei primi anni Cinquanta – hanno sfruttato la sua immagine di pensatore e commentatore “poliedrico” per limitarsi a consumare il brandello della sua produzione che a loro interessava promuovere. Il risultato è stato quello di presentare al pubblico un Calogero di volta in volta antichista, filosofo dei diritti universali, pensatore educativo, commentatore politico e polemista, quasi come se in ognuna di queste vesti egli fosse una persona diversa slegata dalle altre sfaccettature della sua produzione.
Si finisce così per perdere la natura intimamente organica del suo percorso intellettuale e della sua proposta interpretativa della realtà. La rigorosa “palestra” insieme ermeneutica e filologica degli studi di filosofia antica – e soprattutto da un confronto con Socrate i cui risultati, come la voce a lui dedicata per l’Enciclopedia italiana, offrono ancora spunti informativi di gran pregio – è la chiave per comprendere la sua proposta insieme teorica e pratica della “filosofia del dialogo”, nella quale l’attualismo gentiliano della formazione è portato alle estreme conseguenze individuando la validità dell’affermazione logica solo nell’atto morale, e in particolare nell’atto di valore pedagogico. Una proposta in cui, da un lato, trova la base etica la sua proposta interpretativa della democrazia, vista come affermazione universale del diritto individuale alla partecipazione politica fondata sull’assunto del primo dovere dell’ascolto reciproco; dall’altro, emergeva nella politica una strutturale dimensione educativa, che non si esauriva nella petizione di principio generalmente letta ne La scuola dell’uomo del 1939, ma si circostanziava prima negli scritti di promozione del liberalsocialismo degli anni Quaranta, spesso pensati per introdurre a una nuova dimensione di convivenza civile le giovani generazioni cresciute sotto la cappa autoritaria del regime, poi nella pubblicistica sulla riforma scolastica che lo avrebbe visto impegnato per gran parte degli anni Cinquanta.
È proprio questa profonda organicità tra studio storico-filosofico, riflessione speculativa ed etica e commento d’attualità a garantire agli editoriali giornalistici di Calogero quella profondità che li rende capaci di parlare a un nuovo pubblico anche a distanza delle circostanze puntuali che li generavano. Ciò è vero per le relativamente tarde riflessioni sul presente espresse sulle colonne del “Mondo” soprattutto nei primi anni Sessanta, riflessioni che si apprezzano nella raccolta d’autore Quaderno laico pubblicata per i tipi di Laterza nel 1967 assai più che non in successive antologie ridotte, e in cui l’ampiezza di riferimenti e di orizzonti era in parte già ricercata al momento della stesura. Lo è ancora di più, però, per gli editoriali ospitati dallo stesso settimanale nel decennio precedente, più specificamente concentrati sul tema educativo e scolastico e per questo molto più aderenti a un dibattito riformatore in continua evoluzione giorno dopo giorno.
Gli interventi del Calogero commentatore e polemista di politica scolastica si collocano in un contesto particolare, che lo metteva al centro della scena assai più chiaramente di quanto gli sarebbe forse mai capitato fuori da un’aula universitaria
Raccolti da Einaudi nel volume Scuola sotto inchiesta nel 1957 (prima di una riedizione, ampliata, uscita otto anni dopo), gli interventi del Calogero commentatore e polemista di politica scolastica si collocano, intanto, in un contesto particolare, che lo metteva al centro della scena assai più chiaramente di quanto gli sarebbe forse mai capitato fuori da un’aula universitaria. Si era infatti nel pieno del dibattito che coinvolgeva tutta la classe politica e intellettuale italiana per l’urgente adeguamento della scuola ereditata dal fascismo al contesto istituzionale della democrazia repubblicana e a una situazione socioeconomica di crescita impetuosa, in cui nuovi problemi si intrecciavano a vecchi nodi irrisolti. Pochi anni prima, Calogero aveva affrontato il non facile compito di occuparsi del tema scolastico in Costituzione – e quindi di tutte le mancanze in termini di libertà d’insegnamento, di sostegno economico agli studi dei meno abbienti, di regolamentazione del ruolo delle scuole non statali – nel fortunato Commentario sistematico curato da Calamandrei e Levi con la partecipazione di numerosi critici di tendenze laico-democratiche e liberalsocialiste agli assetti istituzionali e di potere che si andavano consolidando.
Nel 1956, invece, era stato uno degli assoluti protagonisti nel “Processo alla scuola” organizzato in forma di convegno dagli Amici del “Mondo”, forse il momento di confronto sul tema più significativo degli anni Cinquanta per la partecipazione degli esponenti di tutte le più significative tendenze riformatrici, dal libertario Lamberto Borghi al cattolico progressista Luigi Pedrazzi – che nel 1958 avrebbe ricambiato l’invito ospitando Calogero al convegno del “Mulino” sulla scuola secondaria –, al più anziano Umberto Zanotti-Bianco. Proprio nel 1957, infine, Calogero si stava impegnando a dare al neocostituito Partito radicale una piattaforma politica di ampio respiro anche su temi tecnici, presentando il 4 ottobre degli “Orientamenti di politica scolastica” che avevano lo spessore di un saggio analitico, tanto da costituire l’anno dopo la traccia per una presentazione del problema scolastico inviata ai colleghi dell’“Italian Quarterly” della University of California conosciuti nei suoi anni all’estero; una presentazione destinata a diventare il testo di riferimento sulla scuola italiana per i consulenti statunitensi alle riforme del centro-sinistra nei primi anni Sessanta.
È alla luce di queste esigenze di urgente intervento riformatore che, nella scrittura calogeriana, temi classici della polemica scolastica di parte laica – come quello dell’insegnamento religioso sempre più pervasivo anche a causa della “ministerializzazione” delle istanze confessionali col quasi-monopolio governativo Dc, e dell’offerta “di mercato” delle scuole cattoliche a fronte di una scuola pubblica tenuta nella quasi totale incapacità di rispondere alle necessità di studenti che si discostassero in un senso o nell’altro dalla “media” – si incrociavano con una proposta di formazione improntata alla libertà di apprendimento e all’espressione delle inclinazioni di ogni studente. E proprio attorno a questa proposta la tematizzazione calogeriana si faceva più caratteristica.
Forte dell’esperienza del comprehensive schooling statunitense che aveva potuto conoscere negli anni attorno al 1950, quando durante la sua permanenza Oltreoceano anche i suoi figli frequentavano le scuole locali, il filosofo portava alle estreme conseguenze l’idea di una scuola unica prolungata fino ai diciotto o almeno ai sedici anni, che però doveva dare ampio spazio alle scelte degli studenti per la definizione personalizzata dei curricoli, fino a rendere l’esperienza di studio sostanzialmente personalizzata.
Il filosofo portava alle estreme conseguenze l’idea di una scuola unica prolungata fino ai diciotto o almeno ai sedici anni, che però doveva dare ampio spazio alle scelte degli studenti per la definizione personalizzata dei curricoli
Secondo la tradizione dell’“educazione progressiva” e “puerocentrica” che allora Calogero contribuiva a far conoscere in Italia in collaborazione col gruppo fiorentino dei Codignola e de La Nuova Italia, questa proposta apparentemente di pura attenzione didattica aveva un fondamento che andava ben al di là delle mura di un’aula scolastica. Nel rifiuto, chiaramente radicato nella lettura di uno degli scrittori scolastici più apprezzati dal Calogero del Secondo dopoguerra, il Salvemini de La riforma della scuola media, di una scuola mero veicolo di una uniforme “cultura generale”, si leggeva il rifiuto dell’imposizione di un modello di società gerarchica che attraverso la selezione imposta dall’effettiva capacità degli studenti di interiorizzare – o di sopportare – l’esperienza scolastica obbligatoria perpetuasse e ricostituisse continuamente le differenze sociali, attribuendo diverse possibilità di affermazione individuale in base al rendimento. La scuola di un Paese democratico invece doveva porsi al servizio delle qualità e delle potenzialità che ogni studente si mostrava in grado di esprimere, e doveva valorizzarle con un percorso attraverso il quale ognuno si confrontasse con il necessario investimento in serietà e impegno nelle consegne di studio in vista di un traguardo di autorealizzazione intellettuale che sentiva davvero proprio, e non predeterminato dalle convenzioni. In quest’ottica l’obbligo scolastico prolungato, e garantito economicamente per chi non avesse i mezzi per poterselo permettere, diventava davvero un impegno produttivo per la crescita di tutti, e solo nell’ottica della scelta individuale dei percorsi di istruzione poteva trovare un senso il mantenimento tra le opzioni finanche di una formazione secondaria classica. Il rifiuto dell’obbligo del latino, nell’intenso dibattito allora in corso sul tema, da parte di un antichista provetto come Calogero acquisiva il suo senso proprio nel rifiuto di uno strumento di imposizione dei modelli culturali del passato, secondo una funzione che lo studio della lingua classica manteneva con la sua ingombrante presenza fin dalla secondaria inferiore. Per contro, la sua conservazione in quei termini in alcuni percorsi privilegiati – chiosava il pensatore in modo quasi profetico – avrebbe condotto presto a una reazione repulsiva nei confronti della cultura classica che l’importanza formativa di quell’ambito di studi per chi voleva effettivamente dedicarvisi per inclinazione non meritava.
L’idea di scuola sottesa agli scritti calogeriani degli anni Cinquanta, in conclusione, era quella di un’istituzione educativa che attraverso una proposta culturale forte sapeva disegnare il futuro di una rete di relazioni sociali nel contempo dinamiche e intimamente egualitarie, riprendendo in modo forse insuperato nel dibattito intellettuale del nostro Paese l’omologazione tra vita, percorso educativo e sviluppo di una reale democrazia sociale espresso all’inizio del secolo da John Dewey, e troppo spesso presentato da altri suoi interpreti in Italia più come una proposta scolastica che come una proposta politica a tutto tondo. Un’idea di scuola in cui la formazione di intellettuali completi, ciascuno realizzato secondo il proprio interesse specifico, dotati semmai di una preparazione immediatamente spendibile in primo luogo nel “mestiere” di cittadino consapevole, in una comunità in cui tutti (e tutte) dovevano prepararsi a dare al meglio il proprio contributo costruttivo in vista di una piena partecipazione ai diritti civili e sociali, era prioritaria rispetto a esigenze contingenti destinate a cambiare più rapidamente di un solido modello culturale e di solide basi per la convivenza civile.
Forse proprio questa ambizione di fondo ha finito per condurre il pensiero calogeriano quasi a una certa emarginazione quando il consenso politico per le riforme scolastiche si assestò sui primi tentativi di modellizzazione della human capital theory, che vedevano in una scuola che preparasse lavoratori qualificati la chiave per una crescita equilibrata e per la partecipazione universale alla ricchezza. Si era nella temperie politica inaugurata dal varo del Piano decennale di investimenti sulla scuola da parte del governo Fanfani nel 1958, e coronata dall’accordo sulla riforma della scuola dell’obbligo tra pensatori sociali di area Psi e “tecnocrati” ministeriali, sulla base delle assai ottimistiche previsioni delle necessità di scolarizzazione nel mondo produttivo in crescita diffuse dal gruppo di ricerca Svimez guidato da Gino Martinoli attorno al 1960. Come noto, la crisi dei primi anni Settanta sul piano economico, e il crescente disagio per le convenzioni sociali consolidate dimostrato dai movimenti giovanili iniziati nel decennio precedente sul piano culturale, misero in discussione le basi stesse di quel consenso diffuso. Forse non a caso, a differenza di molti pensatori della sua generazione, Calogero poté tornare a essere considerato un potenziale interlocutore da parte delle correnti di pensiero contestatrici. E dovrebbe accordargli altrettanta attenzione anche chi oggi – operando nella scuola e nell’università da studente o da professionista, o in generale in quanto parte di una cittadinanza esausta – vuole superare una volta per tutte l’incapacità di un’intera classe dirigente di pensare all’istruzione come altro dalla pura e semplice formazione all’esecuzione di un compito socialmente precostituito, e di conseguenza alla cittadinanza diversamente dalla pura obbedienza a schemi acquisiti, per andare verso una cultura e una società in cui ognuno debba riscoprirsi costruttore persino dei fondamenti del proprio patto di convivenza.
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